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Addio a Carroll Shelby

Pilota di aerei da combattimento e di auto da corsa, costruttore di muscle car, texano nel DNA e nei modi, Shelby è ricordato per le muscle car più belle. E per una rivalità fiera con il Commendator Ferrari.

Se n’è andato Carroll Shelby. Rude come lo stereotipo del perfetto texano, avvolto nella bandiera a stelle e strisce come ogni yankee che si rispetti. Scolpito nella pietra, veterano della Seconda Guerra Mondiale, prima pilota e poi costruttore. Autore di alcune delle muscle car più affascinanti della storia. E con un uomo nel mirino: Enzo Ferrari. I dati biografici dicono che Shelby è nato a Leesburg, 150 anime texane o poco più, l’11 gennaio 1923; si è spento a Dallas, sempre nello Stato della stella solitaria, il 10 maggio. In ritardo la notizia, per volere della famiglia. Comunicata senza retorica: il cowboy si sistema il cappello, stringe gli occhi a fessura e cavalca verso l’Ignoto. Bofonchiando qualcosa, o magari facendo finta di farlo.

Si “accendeva” solo per le auto

Se n’è andato in silenzio, Shelby. E non poteva che essere così: la voce, lui, l’alzava solo se c’erano di mezzo le auto. E l’interlocutore aveva un accento modenese, ma di questo parleremo a breve. Era gracile, un texano atipico: una malformazione congenita al cuore lo aveva costretto a passare buona parte della fanciullezza nel letto, a riposo. A quattordici anni, il referto: “Guarito”. Stringato più che mai: a Leesburg non si faceva poesia. Solo prosa, e anche breve.

Il padre di Carroll Shelby era portalettere. L’auto di servizio, una Whippet 96 del 1928. “Più forte, papà”, chiedeva il gracile Carroll. E papà non si faceva pregare: le poche volte in cui a Shelby jr. era permesso lasciare casa, la strada per Dallas veniva percorsa sul filo delle 65 miglia orarie. La prima auto guidata, una Willys del ’38. L’attività preferita? Saltare la cunetta che dava sul passaggio a livello alla massima velocità, sulle 70 miglia o giù di lì: uno sport che non piacque granché alla polizia locale. Che gli fece i complimenti per l’abilità di guida, ma lo privò della patente per sei mesi. Si faceva così allora, e così si fa ancora. Non necessariamente in Texas.

Shelby 427SC Cobra

Pilota di aerei da guerra

Nel 1941, l’arruolamento nelle Army Air Corps: la Patria, Shelby la serve pilotando aerei da guerra. Alla visita di leva, Shelby è alto poco meno di un metro e sessanta centimetri e non arriva a cinquanta chili di peso: in attesa di completare lo sviluppo, si mangia 12 banane di fila per raggiungere il peso minimo. Abile e arruolato (con aiutino): va bene così. Shelby si divide tra officina e abitacolo: una passione che lo accompagnerà a vita. Ma in guerra non ci andrà mai: è istruttore di volo a San Antonio, Texas. Pilota e costruttore ante litteram tra i bimotori, nel dicembre del ’43 si sposa con la compagna di scuola Jeanne e si dà alla prole. Tre i figli: Sharon, Michael e Patrick, nati tra il ’44 e il ’47. Il perfetto yankee: i tempi sono maturi per aprire un ranch, Mr. Shelby?

Pare proprio di sì, anche perché nel ’45 c’è il congedo dalla Army Air Corps: ma prima Shelby capisce che fare manovalanza nei pozzi di petrolio non è il suo destino. Decide allora di darsi all’allevamento di bestiame, ma la peste aviaria gli porta via 40.000 polli su 70.000 in soli tre giorni. C’è un tarlo che rode Carroll Shelby, ed è quello delle corse. Nell’America del dopoguerra, ogni sogno può divenire realtà: basta crederci, avere braccia e cuore. E, se sei sudista, aggiungerci anche “palle”: non stona di certo, perché in quelle latitudini la sostanza prevale sulla forma.

Shelby diventa pilota professionista (di auto)

Il gracile Shelby cresce e impugna di professione un volante da corsa. Gli anni Cinquanta sono alle porte, e Carroll guida dannatamente bene, in qualsiasi categoria gli capiti a tiro. Per Sports Illustrated, è due volte Driver of the Year. Le auto da corsa che preferisce Shelby hanno le ruote coperte. Fatale che gli Stati Uniti inizino a stargli stretti. L’Europa è a portata di mano, Le Mans nel destino. Nel 1954 – a due soli anni dal debutto in una gara d’accelerazione sul quarto di miglio – la prima volta, su un’Aston Martin. Nel 1959, la vittoria. Sempre su Aston Martin, secondo americano nella storia a riuscirci: il primo, Phil Hill, vincerà il Mondiale di Formula 1 su Ferrari nel ’61.

Vince con il cuore, ma anche  – e soprattutto – “con una pillola di nitroglicerina sotto la lingua”. Per aiutare il cuore, appunto. L’idoneità agonistica non richiede visite granché accurate, e quindi è lo stesso Shelby a dire basta. Si arrende a un muscolo cardiaco già stanco a 36 anni di età. Nel 1990, Carroll Shelby riceve un cuore nuovo, e nel ’96 gli viene trapiantato un rene. Anche nella medicina, il texano di ferro stabilisce record di durata difficili da battere. Il ritiro ufficiale è di pochi mesi dopo, e il casco al chiodo viene appeso definitivamente nel 1961. Angina pectoris, per i medici. Una nuova sfida, per Shelby. Che si ricorda di quando un commilitone andò a trovarlo su una “vetturetta inglese, piccola e vecchia. Una MG”, e ridefinisce i criteri dell’auto sportiva all’americana. Motore con un mare di centimetri cubici su un corpo vettura compatto: questa è la soluzione. E questa la via per le auto di Shelby, le Cobra.

Shelby 427SC Cobra

Enzo Ferrari, quasi un’ossessione

Diventato costruttore, Shelby mette un uomo nel mirino: Enzo Ferrari. Il texano conosce già il Drake: è stato convocato dal Commendatore a Maranello per discutere di un eventuale ingaggio tempo addietro. Shelby acconsente, ma se ne va ben presto, sbattendo la porta e meditando vendetta sportiva. Shelby si lega a Ford, che nel 1964 lancia la Mustang e vuole dare un’impronta sportiva al marchio. L’imprimatur avviene per mano di Lee Iacocca, capo carismatico dell’azienda di Detroit. L’arma si chiama GT40: se la giocherà a Le Mans con le Ferrari, che dal 1960 vi vincono ininterrottamente. Sono gli anni della guerra Cobra-Ferrari: il Golia a stelle e strisce contro quello di Maranello.

Il 1965 è interlocutorio: vincono ancora le Rosse, con la 250LM affidata a Gregory e a un certo Jochen Rindt (vincerà, postumo, il titolo ’70 di Formula 1), con le GT40 affidate a Shelby penalizzate da un propulsore poco potente (a dispetto dei 4,7 litri di cilindrata contro i 3,3 del V12 di Maranello) e dall’affidabilità del cambio Colotti. Nel ’66 Ford punta il tutto per tutto, allestendo uno squadrone. Il Commendator Ferrari agisce di conserva, con due P3 ufficiali e una terza affidata all’importatore nordamericano, Chinetti. Il risultato è nella foto storica di tre GT40 in parata sul traguardo.

Ordini di scuderia? Mai

Le GT40 si ripetono fino al ’69, ma Shelby è uomo entusiasta e poco incline al compromesso. Nel 1966, dopo aver vinto a Daytona ed a Sebring, Kenny Miles sta per realizzare (nello specifico insieme al neozelandese Hulme) una clamorosa tripletta: è lui in testa all’ultimo giro di Le Mans. Miles è inglese: scoperto da Shelby, ne è pupillo, pilota e aiuto imprescindibile nello sviluppo delle auto stradali, dalla AC Cobra alla Mustang GT350. Ma da casa Ford (in tutti i sensi, visto che è Henry Ford junior in persona, presente a bordo pista, a darlo) arriva l’ordine di scuderia di arrivare in parata con McLaren e Amon. Questione di immagine…

Miles passa sul traguardo con gli stop accesi in maniera polemica, e sono i due kiwi a essere dichiarati vincitori: i musi delle Ford sono allineati, ma l’auto nera (il colore è quello della bandiera neozelandese) è partita 40 metri più indietro sulla linea di schieramento. Un trionfo senza vittoria. E senza quell’ex aequo che Ford avrebbe voluto per l’azienda di famiglia.

Shelby non commenta ma, in quel momento, perde entusiasmo ed energia. Miles firmerà il contratto con la sorte lo stesso anno, uscendo di pista e uccidendosi a Riverside durante i collaudi della GT40 MkIV. In quel momento parte il lungo addio alle corse di un texano tutto d’un pezzo, ricordato oggi per le auto di serie con il cobra sul cofano. Ma che riuscì a piegare il più grande, come forse non avrebbe mai immaginato. “Quando provi a mettere 300 cavalli su un’auto concepita per averne 100, capisci cosa significa doverla sviluppare sul serio”. Così Shelby nel 2002, in un’intervista a Sports Illustrated. Quando le lepri non erano più conigli Abarth, i serpenti si erano tolti lo sfizio di piegare il Cavallino rampante. E nel Texas viveva ancora un signore scolpito nella pietra, una gran passione per i motori. E il cappello da cowboy perennemente calcato sulla testa.

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