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Aston Martin, James Bond diventa (un po’) tricolore

Il 37,5% dell'azienda inglese passa a Investindustrial, il gruppo facente capo ad Andrea Bonomi. Più imprenditore che finanziere, appassionato di motori, è l'artefice del boom commerciale di Ducati, appena ceduta ad Audi per poco meno di 900 milioni di euro.

Con il Professor Monti pronto a rimettere nelle mani del Presidente della Repubblica Napolitano il proprio mandato di Premier, al bove popolo italiano non resta nemmeno la magra soddisfazione di imprecare contro l'eventuale governo ladro per il meteo inclemente di questi giorni. Durante i quali, manco a farlo apposta, il barometro sembra andare di pari passo con il PIL di casa nostra: sottozero. Eppure, in un quadro a tinte più gelide che fosche, uno spiraglio di sole per l'imprenditoria italiana sembra esserci: ad esempio, la notizia dell'acquisto di Aston Martin da parte del fondo di private equity Investindustrial facente capo ad Andrea Bonomi, già risanatore prima e felice venditore poi di Ducati.

L'operazione

Meglio assumere un tono più formale per ricapitolare i fatti: Investment Dar, società di investimenti kuwaitiana che insieme ad Adeem Investments e alla banca statunitense Jeffries ha definito l'attuale assetto azionario di Aston Martin, delibererà un aumento di capitale riservato, che sarà sottoscritto per 190 milioni di euro da Prestige Motor Holdings, controllata del gruppo Investindustrial di Bonomi.
 
L'operazione, cui l'Antitrust dovrà dare l'assenso entro il primo trimestre del prossimo anno, porterà Investindustrial a diventare azionista di maggioranza, con la quota del 37,5%. Il resto rimarrà in mano dei soci kuwaitiani e ai manager, ma Investindustrial avrà a disposizione il 50% dei voti e, con esso, il controllo dell'azienda. Una bella mossa non solo per Bonomi, quanto per tutta l'imprenditoria italiana. Con tutti gli onori e gli oneri futuri del caso.
 
Una storia di nobiltà e miserie

Aston Martin è un'azienda con molti alti e bassi alle spalle: nobile come tutte le inglesi, a volte ha pensato di nascondere qualche crepa nel legno pregiato della propria produzione spacciandola per venatura caratteristica. Nata nel 1913 come concessionaria Bamford e Martin, iniziò a produrre  auto con proprio marchio nove anni dopo, non prima che Robert Bamford abbandonasse il socio Lionel Martin e che il nobile franco-polacco Louis Zborowski vi avesse fatto confluire un bel po' di ingenti capitali. Aston Martin, appunto: mentre il secondo nome è facilmente spiegabile, il primo deriva dalla vittoria riportata nella cronoscalata Londra-Aston Clinton da Lionel Martin a bordo di un prototipo realizzato insieme a Bamford nel 1914.

I primi passi da costruttore non furono granché incoraggianti, per Lionel Martin: nel 1926 l'azienda, dichiarata fallita, venne rilevata dalla Renwick & Bertelli, produttori di motori aeronautici che così compivano il gran passo nelle quattro ruote. Fino al 1933 l'Aston Martin si guadagnò buona fama nelle competizioni, ma la cessione del pacchetto di maggioranza azionaria ad Arthur Sutherland iniziò a orientare la produzione verso le auto di (piccola) serie. Con la Seconda Guerra Mondiale, giocoforza, la ragion di Stato impose uno stop: solo componenti per aeroplani, con la minaccia della Luftwaffe alle porte e il mercato delle auto da sognare da ricostruire a conflitto vinto. Come sia andata è cosa nota, e nell'immediato dopoguerra l'acquisto da parte dell'imprenditore David Brown regalò anni sereni ad Aston Martin, che nel 1947 venne fusa dallo stesso Brown con Lagonda, altro costruttore di auto di lusso rilevato nel frattempo. 

Brown era un personaggio che potremmo definire la versione un po' più mondana del nostro Giovanni Borghi, il cumenda che inventò la Ignis. Tra un “sa 'l custa?” e l'altro – la frase è di Borghi, ma la traduzione inglese ben si addice a Brown – l'Aston Martin visse un periodo di splendore fino al 1972, quando la crisi petrolifera determinò la chiusura degli impianti produttivi nel Buckinghamshire, l'entrata in liquidazione volontaria e la perdita del lavoro per 500 dipendenti. Brown (le cui iniziali DB avevano nel frattempo battezzato tutte le Aston Martin) finì i propri giorni in bellezza a Montecarlo nel '93: in quel tragico 1972 fu costretto a vendere il vero core business – l'azienda di famiglia, che produceva cambi e trattori – alla statunitense Case, curiosamente oggi in orbita Fiat Industrial con il marchio Case IH.
 
Tornando ad Aston Martin, l'azienda venne rilevata per 100 sterline dall'imprenditore statunitense William Wilson e risanata nel volgere di pochi mesi: passò di mano nel 1975 per un milione di sterline. Non che per le blasonate GT inglesi vi fosse gran pace: nel 1980 gli acquirenti Sprague & Minden la cedettero a una cordata composta da Pace Petroleum (dice niente il nome? Forse le benzine Q8, il marchio più famoso, sono in grado di rivelarne la nazionalità…) e Gauntlett, e nel 1983 il pacchetto di maggioranza finì in mano a Gauntlett e Livanos. Al 1987 risale l'ingresso della Ford, che divenne azionista di riferimento nel 1995: fino al 2006 l'Aston Martin ne era emanazione di lusso al pari di Jaguar. Al 2007 risale l'attuale assetto societario in seguito alla crisi del colosso di Detroit, che comunque fornisce tutt'oggi motori e cambi. Attuale, ovviamente, fino all'avvento di Investindustrial…
 
Le prospettive

I centonovanta milioni sborsati da Andrea Bonomi per Aston Martin sono in sé una gran bella somma, certo, eppure esigua di fronte alle esigenze di un'azienda automobilistica: basti pensare ai poco meno di 900 con cui Audi si è assicurata Ducati da Investindustrial, facente capo allo stesso Bonomi. Ovvio che il confronto non sia omogeneo, ma una disparità di cifre simile rende bene l'idea di cosa toccherà realizzare a Bonomi e soci per ridare nuova linfa al marchio inglese. Già, perché crisi dell'auto e qualche scelta precedente non proprio lungimirante (beninteso: parlandone con un facile senno di poi) hanno lasciato più di uno strascico.
 
In molti possono pensare che, se si arriva a rimarchiare una Toyota iQ e a venderla a 40.000 euro (è il caso della Cygnet) concedendo sulla calandra il marchio Aston Martin, forse qualche problema grave c'è. Difficile, in tutta sincerità, pensare altrimenti, anche se l'operazione-Cygnet è servita all'azienda ad abbassare la media ponderata delle emissioni relative alla propria gamma, in ossequio alle disposizioni UE in materia. Eppure, il marchio nel 2011 ha generato un fatturato di 634 milioni di euro e un margine operativo lordo di 101.
 
Di sicuro, la sfida per Bonomi & C. è di quelle probanti, e va ben oltre il prezzo d'acquisto – o meglio, di acquisto della maggioranza: i piani finanziari parlano di 625 milioni di euro riservati nei prossimi cinque anni ai nuovi prodotti e allo sviluppo tecnologico. Sulla carta, Bonomi ha le idee chiare: “Realizzare anche con Aston Martin quel processo di trasformazione e ammodernamento che abbiamo ottenuto con successo in Ducati, grazie all'ampliamento della gamma di modelli e al rafforzamento della rete distributiva in tutto il mondo”. Che sia un vincente lo dimostrano tanto i fatti quanto la progenie: impossibile non dargli credito.
 
Il mito Bond

Ancor più impossibile dire Aston Martin e non pensare a James Bond, l'agente meno segreto e più popolare del mondo che, se nella finzione letteraria di Fleming usava una Bentley Continental come auto personale, sin dal terzo episodio dell'infinita saga cinematografica (“Agente 007 – Missione Goldfinger”) sale a bordo di una DB5. La DB5 ricompare in “Thunderball: Operazione Tuono”, mentre in “Al servizio segreto di Sua Maestà” debutta una DBS. Segue quasi un ventennio di silenzio, in cui Bond si alterna tra vari mezzi (con buona dose di campanilismo, è bene ricordare l'Alfetta GTV6 di “Octopussy – Operazione piovra”), fino a quando “Zona pericolo” ripropone una V8 Vantage e una V8 Vantage Volante.
 
Con “GoldenEye” si ritorna alla DB5, vista anche in “Il domani non muore mai”; il V12 della Vanquish romba in “La morte può attendere”, mentre in “Casino Royale” le Aston Martin sono due: la DBS V12 e la DB5 vinta al gioco all'antagonista Dimitrios. La DBS V12 ha la passerella anche in “Quantum of Solace”, mentre l'attuale “Skyfall” ricompare, anacronistica e regale, la DB5. Tanto anacronistica quanto utile, a ben vedere: per capirne il motivo, è bene rimandare al cinema. Qui proponiamo la sfilata delle Bond cars firmate Aston Martin: non è il grande schermo, ma … Che spettacolo!
 

 

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