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Didier Pironi, venticinque anni fa

Il 23 agosto 1987, nell’Isola di Wight, si compiva il destino di un pilota pieno di talento e ambizione. Oscurato, forse fin troppo, dal mito-Villeneuve

Francese fino al midollo a dispetto delle chiare origini italiane, Didier Pironi se n’è andato dopo avere vissuto molte volte. Tra acqua e asfalto, coerente con le proprie passioni. Con un sorriso che mai è stato aperto fino in fondo: il broncio, Didier, lo portava nel proprio animo.

Di Carlos Reutemann, il Commendator Ferrari disse che era “un pilota tormentato e tormentoso”. Ecco, anche Pironi lo era, non solo come pilota. Forse meno del Gaucho Triste. Ma il suo conflitto partiva da dentro. Lo sapeva Christine, la compagna di una vita che sposò alla vigilia del Gran Premio di Imola del 1982. Lo sapevano gli amici, i pochi veri. Ma non era un orso, Didier. Semplicemente, era un perfezionista. Di quelli che sacrificano se stessi alla ricerca di un apice irraggiungibile.
 
Amava avere tutto sotto controllo, Pironi. Sin da giovane: non è un caso che il suo primo approccio allo sport sia stato nel nuoto, una disciplina individuale. Ripetitiva, che forgia il carattere e spesso lo indurisce. A quindici anni il colpo di fulmine con i motori: galeotto è il cugino e la sua Lotus Seven. Didier proviene da una famiglia benestante: quasi non viene percepito come un “macaroni”, un italiano che ha invaso la Francia in cerca di fortuna. Le quattro ruote sono un ripiego: maman le ritiene meno pericolose delle moto, e il giovane Pironi fatica poco a farsi convincere.
 

La strada è tracciata: volante Elf, Formula Renault e compagni d’avventura che si chiamano, nel corso degli anni, Patrick Depailler, Jean-Pierre Jarier, René Arnoux e Patrick Tambay. Gente tosta, determinata ad arrivare in alto. In Formula 1, nello specifico, perché il ricordo di François Cévert è ancora vivo nel cuore dei francesi. E il sogno è quello di una voiture bleu sul tetto del mondo. Ovviamente, guidata da un francese.
 
Il primo Pironi è un regolarista. Dove regolarista significa “non sfasciamacchine”. Così, almeno, iniziano a considerarlo gli addetti ai lavori, che annotano ben presto sui propri taccuini il nome del biondino dai modi gentili e dall’aria accigliata.  Didier non la pensa così, e – a soli ventidue anni – riesce a farsi affidare dalla Elf la gestione del budget per la stagione 1974. Decisione strana per un giovane, ma coerente con il credo di Pironi: essere artefice del proprio destino, fino alla fine. Gli esiti? Sette vittorie su quindici in patria, campionato vinto a mani basse e tuffo nel challenge europeo della Formula Renault, non senza che un pigmalione dal nome italiano – Renato Martini – sia solleticato dalla lucidità di Didier. Non solo pilota, ma uomo da corsa a 360 gradi.
 

L’escalation è costante. Non fulminea, certo. Perché la concorrenza è qualificata e Didier non ama andare oltre il limite: non è nelle sue corde. Ma i risultati lo portano in alto, passo dopo passo, e senza passare per la Formula 3: a ventiquattro anni, le 12 vittorie su 17 nel Formula Renault europeo portano Pironi direttamente sul seggiolino della Martini, in Formula 2. Già, perché quel Renato Martini sopra nominato è più noto con il soprannome di Tico. E in Francia sta alle formule minori tanto quanto lo è Dallara dalle nostre parti.
 
Dopo il trionfale ‘76, l’Europeo di Formula 2 vede un Pironi concreto: una vittoria e vari podi gli valgono, al pari del successo a Monaco su una Formula 3, la chiamata di Ken Tyrrell per il 1978. In Formula 1 a 26 anni: oggi sarebbe la regola o quasi; trenta e più anni fa, non proprio. Pironi regolarista, si è detto? Didier ha sempre rifiutato questa etichetta, ma i risultati lo dimostrano, e non certo in termini riduttivi: primo anno a punti e spesso davanti al più esperto compagno di squadra Depailler (con una chicca a ruote coperte: vince Le Mans da ufficiale Alpine Renault, in coppia con Jean-Pierre Jassaud), e due volte a podio nel 1979. Con il nuovo compagno di squadra Jarier è parità per quanto riguarda i punti, 14 a 14. Ma Didier vuole di più: vincere. E trova in Guy Ligier l’interlocutore ideale: la sua monoposto è competitiva, e in molti la danno vincente anche per il campionato.
 

La prima vittoria arriva a Zolder, sulla pista che sarà fatale due anni dopo a Villeneuve. Ma anche i primi attriti con il dispotico Ligier: il titolo inizia a sfumare e l’armonia nel team bleu viene coperto dalle urla del patron, che accusa i piloti di rompere il giocattolo sul più bello. A Didier non interessa ribattere: semplicemente, si accasa in Italia dopo una di quelle telefonate cui non si può dire di no. Ferrari lo vuole per sviluppare la 126 C/K, Villeneuve dà l’assenso. E a Pironi non resta altro che firmare. Forse con un sorriso meno enigmatico del solito.
 
Da qui in poi, il film della vita di Didier Pironi è a tinte forti. Il regolarista non c’è più, perché la prima Ferrari turbo della storia rompe più volte di quante veda il traguardo. Villeneuve vince a Monaco e al Jarama in maniera epica. Il sorriso del francese si spegne. Si sente il numero due: qualcosa che un pilota di razza rifiuta a priori. Macina chilometri, Didier, sgrezzando la 126C2 per l’anno successivo. Si guadagna la stima di Forghieri. E scala posizioni nelle gerarchie del team. 
 

La storia è nota: il Gilles Villeneuve con cui si sfidava – tra incoscienza, rischio e qualcosa di simile a un’amicizia – sulla direttrice Montecarlo-Maranello a bordo della sua Ferrari (con qualche pit stop imposto dalla Polstrada, ma questo è un altro discorso) è il primo rivale. Da studiare e combattere in ogni modo. Il team è dalla sua? Vero. Ma ho altre frecce al mio arco: il lavoro, la costanza. La diplomazia che a Villeneuve è sempre difettata. Imola: lo sposino Pironi compie il grande sgarbo a Gilles. Vince senza trionfo, i tifosi e il compagno di squadra gli voltano le spalle. E l’Aviatore canadese parte, due settimane dopo, per l’ultimo volo. C’è chi dice per stare davanti a Didier e chi, semplicemente, perché a un cuore così grande come quello di Villeneuve la dimensione terrena sta troppo stretta.
 
Dopo che il povero Paletti conclude la propria vita centrando la 126 C2 ferma in pole con la frizione bruciata nel Gran Premio del Canada, la seconda vittoria dell’anno porta Didier a essere il candidato numero uno al titolo: la Ferrari è cresciuta, affidabile, veloce. A Hockenheim arrivano anche, in esclusiva, le nuove rain firmate Goodyear. Didier, in qualifica, sembra un motoscafo in mezzo a mille barche a remi. Piove, in Germania, e piove a dirotto. Alain Prost, che non è mai stato un cuor di leone sotto l’acqua, rallenta a bordo pista. Colpevolmente, col senno di poi, ma in pochi lo rinfacceranno al quattro volte iridato. Didier ha fatto il proprio giro veloce e si sposta per non ostacolare la Williams di Daly.
 

La Renault di Prost è muro e rampa di lancio verso il dolore. La Ferrari è una marionetta che si spezza in due, vola più alta degli alberi a bordopista e ricade pesante. Le gambe di Didier, una poltiglia. Il pilota è cosciente in mezzo ai rottami. Sangue, shock, paura che la benzina prenda fuoco. I colleghi si fermano, non possono che dargli conforto e aspettare i soccorsi. Nelson Piquet vomita: dalla tuta di Pironi fuoriescono ossa e grida di dolore. 

 
Trentatré operazioni per tornare a cullare un sogno. Non quello di camminare, ma fare uno sberleffo al destino. Un test nel 1986 sulla AGS, uno sulla Ligier. Le sirene di radiobox: nel 1987, Didier sarà il compagno di squadra di Prost in McLaren. Sirene, appunto. Come quelle, spiegate, che accompagnano per sempre fuori dal Circus Didier Pironi l'8 agosto 1982. I medici scongiurano l'amputazione. Ma Didier vuole solo una cosa: vincere. Si fotta il dolore, si fotta il tempo. Si fotta tutto. Io ritorno. E lo faccio in acqua.
 

Più vecchio, più incazzato, meno biondino e più uomo segnato dagli eventi, più introverso, ma sempre lucidamente votato alla vittoria, Didier trova lo sbocco agonistico nella propria attività commerciale. Da tempo è importatore per la Francia degli scafi prodotti da Abbate sul Lago di Como. Non posso più nutrirmi d'asfalto? Bene, correrò sull'acqua. Due motori-mostro da 9 litri l'uno firmati Lamborghini, un team gestito in proprio, uno scafo in carbonio e il Colibrì è pronto. Non per fare il comprimario. Per regalare a Didier un alloro iridato. Il numero? Il 4. Come quello di quando correva per il Boscaiolo Ken Tyrrell.
 
Didier vince anche in offshore. Arriva addirittura il plauso di Enzo Ferrari per la sua seconda vita. Che è troppo breve: Christine è incinta di due gemelli, Didier la saluta e parte per l'Isola di Wight. 23 agosto 1987. Duello ravvicinato sul filo dei 170 km all'ora. I Lamborghini fremono e urlano. Sull'acqua, che – a quella velocità – è un muro. Improvvisa arriva un'onda alzata da un'imbarcazione esterna al tracciato di gara. Una nave da lavoro, non da diporto. Un elefante che attenta a due libellule in piena corsa. Il Pinot di Pinot di Renato Della Valle passa a stento, sbilanciato nell'assetto. Il Colibrì no: vola in alto. Punta il cielo, come a Hockenheim. Ricade su se stesso. Didier non c'è più, insieme ai compagni d'avventura Jean-Claude Guénard e Bernard Giroux.
 
Di lui rimangono i due gemelli avuti con Christine, chiamati Gilles e Didier, il Colibrì pazientemente restaurato dall'editore francese Michel Hommell, insieme ad Abbate e a Lamborghini e il ruolo ingrato di antagonista del Mito. Didier se l'era cucito addosso sin dalla nascita, forse. Ma l'hanno dipinto a tinte troppo fosche perché fosse tutto vero.

 

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