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Alfa Romeo in Formula 1: una storia che parte da lontano

Dai primi Grand Prix al successo del 1935 con Tazio Nuvolari, con cui la Casa lombarda a farsi beffe al Nurbürgring del nazismo: il Portello è sul tetto del mondo nonostante mille traversie

“Ho ancora per la nostra Alfa, siatene certi, l’adolescente tenerezza del primo amore, l’affetto immacolato per la mamma”Enzo Anselmo Ferrari, Maranello (MO), 1951

 “Non so se l’Alfa Romeo approderà in Formula 1: se accadrà, non lo farà come semplice fornitore di motori, ma come una squadra completa. Molto dipenderà dalla Giulia e dalle sue vendite. Per finanziare le corse bisogna vendere vetture”: così Sergio Marchionne, Amministratore Delegato di FCA e Presidente della Ferrari, a margine della presentazione della nuova berlina del Biscione. Una dichiarazione, la sua, a cavallo tra entusiasmo e pragmatismo, che fa venire l’acquolina in bocca agli appassionati di una Casa automobilistica che ha legato il proprio DNA alle corse in modo indissolubile. Questo a inizio anno, quando la Ferrari dichiaratamente puntava a rompere l’egemonia Mercedes in Formula 1. Come sia realmente andata è storia sin troppo recente: in attesa di nuove, sia sufficiente per ora ricordare i trascorsi del Biscione nella massima espressione del motorismo sportivo. Anche perché, per dirla tutta, si tratta di trascorsi alquanto gloriosi.  Già nel 1914, a cinque anni dalla fondazione, l’Anonima Lombarda Fabbrica Automobili (il suffisso con cui oggi è conosciuta l’Alfa viene aggiunto nel 1918, con l’acquisto dell’azienda da parte dell’ingegner Nicola Romeo) realizza un’auto esclusivamente destinata alle competizioni: la Grand Prix, con tanto di motore bialbero caratterizzato dalla doppia accensione. Il concetto di Gran Premio  è ancora vago, spesso demandato all’estro degli organizzatori: gli autodromi sono, per la maggior parte, ancora lì da venire – se ne sente parlare solo in Inghilterra, con l’inaugurazione del circuito permanente di Brooksland nel 1907, e negli Stati Uniti, dove l’ovale di Indianapolis vede la luce nel 1909. In Italia il primo è quello di Monza, inaugurato nel 1922: quando l’Alfa Romeo, la cui Grand Prix non ha mai fatto in tempo a debuttare, ha nei propri reparti di produzione più materiale bellico che altro, dal momento che la Prima Guerra Mondiale ha fatto pensare a tutto tranne che alle auto e, men che meno, alle corse. Eppure, Nicola Romeo non è insensibile all’argomento: anzi, trova che possano essere un ottimo veicolo pubblicitario per la produzione di serie, che riprende con fatica. La Grand Prix viene così rispolverata, aggiornata nei limiti del possibile dal progettista Giuseppe Merosi e affidata a vari piloti, tra cui il lodigiano Giuseppe Campari e il veronese di nascita Antonio Ascari, il papà del futuro campione del mondo Alberto.  Nel frattempo, con quella fatica che arriva dall’età pionieristica ai giorni d’oggi, si trova una convergenza organizzativa e regolamentare: gli Automobile Club nazionali si riuniscono nell’Aiacr e viene creata una Commissione Sportiva Internazionale, l’antenata dell’attuale FIA. Le corse iniziano a impregnare le sorti dell’Alfa, che affida a Merosi la realizzazione di un nuovo modello con cilindrata di 2 litri in ossequio alle regole in vigore. La P1 nasce sfortunata: al Gran Premio d’Italia del 1923, il pilota campano Ugo Sivocci, iscritto con il numero 17, trova la morte uscendo di strada e impattando contro un albero. Le reazioni di Nicola Romeo sono immediate: la responsabilità viene imputata al progettista Merosi, che viene rimpiazzato con Vittorio Jano, e le altre P1, condotte da Campari e Ascari, vengono ritirate dalla corsa. Sivocci, che aveva portato in gara la P1 alla Targa Florio dello stesso anno, apponendole un quadrifoglio come portafortuna, corre a Monza senza questo emblema: con la sua morte, diventa imperituro uno dei simboli più riconoscibili su una sportiva Alfa Romeo (e il ritiro del nefasto numero di gara per le auto italiane nelle competizioni).  L’evoluzione della P1, siglata P2 e firmata da Jano, prende parte nel 1925 al primo Campionato Mondiale Automobilistico della storia: organizzato dall’Aiacr, è di fatto l’antesignano dell’odierno campionato riservato ai costruttori – con tutti i distinguo del caso, beninteso. Le tappe previste sono quattro: Indianapolis, Spa-Francorchamps, Montlhéry e Monza a rappresentare Stati Uniti, Belgio, Francia e Italia. L’appuntamento di Monza viene vinto dall’Alfa P2 del conte fiorentino Gastone Brilli-Peri. Che, con la retorica dell’epoca in corso e il distacco del nobiluomo, così dichiara orgoglioso: “Avevo fede cieca nella imbattibilità dell’Alfa-Romeo, nella mia forza fisica e morale. Pensavo ad Ascari, a Sivocci, a tutti i nostri morti; e sentivo che essi mi comandavano di vincere. Che importava osare, cedere ancora una volta, rischiare la pelle! Si trattava di assicurare all’Italia il campionato del mondo ed io la pelle l’avevo arrischiata tante volte per molto meno”. Già, Ascari è caduto a Monthléry, l’Alfa vince la gara e si aggiudica il Mondiale, Brilli-Peri trova una meritata consacrazione e Nicola Romeo aggiunge una corona d’alloro (che resisterà fino agli anni Settanta) nel marchio della Casa.  L’Alfa Romeo, per la quale corre anche un certo Enzo Ferrari (di lì a poco destinato a diventare ciò che oggi chiameremmo team manager, gestendo con la propria scuderia vetture Alfa), si dedica con assiduità alle corse in circuito e su strada: la Targa Florio viene conquistata per sei anni di fila, dal 1930 al 1935; l’edizione 1931 della Mille Miglia è la sola a sfuggire in una striscia che dura dal 1925 al 1938, e non manca neppure una quaterna alla 24 Ore di Le Mans. Relativamente alle corse su pista, il Campionato Mondiale Automobilistico diventa – dopo la mancata assegnazione dal 1928 al 1930 – Campionato Automobilistico Internazionale e, in seguito, Europeo: la prima edizione del 1931, articolata su tre corse, va al milanese Nando Minoja. La seconda consacra il mantovano Tazio Nuvolari, chiamato a sostituire Gastone Brilli-Peri deceduto a Tripoli mentre prova il percorso di gara nel 1930: vince a Monza, a Reims ed è secondo al Nürburgring dietro al tedesco Caracciola, distaccato di 30 secondi. Il prosieguo dell’attività è però a rischio, non solo di quella sportiva: la crisi del 1929 si fa sentire anche in Europa, e l’Alfa Romeo finisce ben presto in mano alle banche. E’ Benito Mussolini a intervenire nel 1933, decidendo in prima persona di consegnare la Casa all’IRI, il neonato Istituto per la Ricostruzione Industriale, e andando contro il parere del Governo, che propende per la chiusura.  A riorganizzare l’Alfa Romeo è Ugo Gobbato, che decide la chiusura del reparto corse interno: l’attività agonistica viene gestita dalla Scuderia Ferrari, che nulla può contro lo strapotere teutonico della Mercedes e dell’Auto Union. Si tratta di un nulla quanto mai relativo, visto che il 28 luglio 1935 Nuvolari si prende una rivincita clamorosa al Nürburgring: sul tracciato tedesco, il mantovano decide di utilizzare la più anziana P3, firmata da Vittorio Jano, anziché la 16C Bimotore (realizzata da Luigi Bazzi, la prima Alfa a portare sulle l’insegna del Cavallino Rampante – cosa che costa a Enzo Ferrari non pochi grattacapi con la Casa e il Regime). La corsa, prodromo di ciò che saranno le Olimpiadi di Berlino nel 1936, è una prevedibile parata per la potenza teutonica, ormai ammantata di nazionalsocialismo. Nuvolari, ben presto, è solo contro nove equipaggi tedeschi: è primo, ma dopo 11 giri dei 22 previsti il suo rifornimento è a dir poco disastroso – con la pompa a mano per il carburante che si rompe e la benzina che viene travasata da taniche, come si fa con un automobilista in panne. Rientra in pista sesto, il mantovano volante, indietro di due minuti e livido di rabbia: il resto lo dicono i libri di storia, con una rimonta furibonda che lo porta ad affrontare l’ultima tornata 30 secondi dietro alla Mercedes di Manfred von Brauchitsch, cui ha mangiato decine di secondi ogni giro. Il tedesco è sulle tele, al pari di Nuvolari, ma ha un’auto ben più potente dell’Alfa Romeo P3: il che si rivela un clamoroso boomerang, visto che le sue gomme cedono di schianto e lasciano la vittoria al mantovano, davanti a 300.000 spettatori increduli, a gerarchi spaesati e a un Adolf Hitler visibilmente contrariato. Per Nuvolari sventola il vessillo tricolore; agli organizzatori non resta che eseguire l’inno italiano per il vincitore – a dire il vero, viene suonato “ ‘O sole mio” anziché la Marcia Reale, visto che il disco non si trova – e magari pensare alle parole dello storico direttore sportivo della Mercedes, Alfred Neubauer, espresse prima della partenza: “Di Nuvolari resta solo un passato glorioso; il presente e il futuro sono dei piloti del Führer”. Non ci sono prove dirette né testimonianze, ma c’è da scommettere che nella sparuta spedizione dell’Alfa Romeo ci sia stato più di un sorriso beffardo. Per Nuvolari, un soprannome, “Der Teufel”, Il Diavolo, che lo contraddistinguerà per sempre.  Quello che poi accade è, putroppo, storia: l’ultima edizione del Campionato Europeo è datata 1939, sostituita dalla Seconda Guerra Mondiale. A quell’epoca la Scuderia Ferrari ha già sviluppato e mandato in pista, alla Coppa Ciano del 1938 disputata a Livorno, una nuova auto: promette bene, c’è chi la chiama Alfetta per le ridotte dimensioni, ma dovrà aspettare la fine del conflitto per diventare una delle auto da corsa più famose (e vincenti) di sempre.  

 

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