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Alfa Romeo in Formula 1: la fine è eutanasia di Stato

Nel 1985 cala il sipario sulla seconda avventura dell’Alfa Romeo nel Circus: zero vittorie e poche soddisfazioni per il Biscione. I perché (e i volti) di un percorso tribolato e di una fine annunciata

Novembre 1985, ultima tappa di un Mondiale già in archivio con il titolo ad Alain Prost su McLaren e un buon numero di rimpianti per Michele Alboreto, su una Ferrari diventata improvvisamente poco affidabile dopo avere portato il milanese a cullare sogni iridati. La Formula 1 scopre l’Australia, correndo per la prima volta ad Adelaide; al quarantaduesimo degli ottantadue giri in programma, uno scarico dell’Alfa Romeo di Riccardo Patrese costringe il pilota padovano all’abbandono, dopo che il compagno di squadra Eddie Cheever si è già fermato alla quinta tornata. Cala così il sipario sull’avventura della Casa lombarda nel Circus: in modo poco glorioso, visto che a fine stagione non c’è neanche un piazzamento a punti. Rende bene l’idea il fatto che la monoposto 185T progettata da Tollentino e da John Gentry venga rimpiazzata a metà stagione dalla già pensionata 184T, che però non ha miglior fortuna.  E’ da almeno un paio d’anni che la scuderia ha imboccato una china da cui appare arduo risalire: l’Autodelta, il reparto corse interno diretto dall’ingegner Chiti, viene progressivamente smantellata, con una logica che si può definire senza mezzi termini partitica. Questo per un semplice motivo: l’Alfa Romeo è, fino al 1986, un’azienda dello Stato Italiano, che fa capo all’IRI, l’Istituto per la Ricostruzione Industriale, allora presieduto da Romano Prodi. E’ un periodo di tagli: di privatizzazioni, come si inizia a sentire dire. L’Alfa Romeo è nel mirino: fa gola alla Ford, c’è anche l’interesse della Fiat. Va venduta, meglio se alleggerita dai costi del reparto corse. I tagli sono nell’aria, ma – più che altro per una questione d’immagine – l’eutanasia deve essere lenta e quasi invisibile. Cosa che avviene, in definitiva, per consunzione. La figura chiave dell’Alfa Romeo è Carlo Chiti: toscano, classe 1924, è a suo modo geniale. Poliedrico, burbero eppure cordiale, accentratore, cinofilo DOC (tanto da lasciare orinare un amico a quattro zampe sulla Brabham-Alfa di Niki Lauda e da non battere un plissé di fronte alle proteste dell’austriaco, sottolineando anzi che “non fa danno”), viene assunto all’inizio degli anni Cinquanta dall’Alfa Romeo e subito destinato all’Alfa Corse. Nel 1957 passa alla Ferrari, dove rimane fino al 1961: firma la D246 iridata con Mike Hawthorn e la 156 F1 che vince il Mondiale con Phil Hill, la prima a motore anteriore, la seconda con configurazione antitetica (convincere il Commendatore ad accettare “il carro spinto dai buoi” non è certo cosa semplice). Il rientro all’Alfa avviene nel 1966, dopo un divorzio traumatico con la Ferrari e il passaggio per l’ATS, fondata con l’altrettanto transfuga Giotto Bizzarrini (con cui ha realizzato una stradale da sogno, la 250 GTO) e finanziata dal conte Volpi di Misurata: l’Autodelta di Chiti, inizialmente una struttura esterna, rimpiazza ben presto il reparto fino ad allora noto come Alfa Corse. L’ingegnere pistoiese non ne è il semplice direttore generale: ne è il deus ex machina. E sogna, con caparbietà e insistenza, l’approdo in Formula 1, per vincere come ai tempi della Ferrari. Il suo biglietto da visita? La 33 che vince il mondiale Sport Prototipi nel ’75 e nel ’77, disegnata in origine da Busso e sviluppata dallo stesso Chiti: il motore è la base della 177, che segna il rientro nel Circus. Quello che si chiude, appunto, con il Gran Premio d’Australia del 1985.  In quest’epoca, l’Autodelta è una struttura agonizzante, con Chiti che ha già rassegnato le dimissioni (nell’84, alla vigilia del Gran Premio del Portogallo che regala il terzo titolo a Lauda) e fondato la Motori Moderni: dal 1983, la struttura sportiva è gestita dall’Euroracing di Giampaolo Pavanello. Un esterno, che con i motori Alfa Romeo ha fatto correre in Formula 3 gente del calibro di Alboreto, Ghinzani e Baldi, ma che si trova a fare i conti con un budget ormai inadeguato. Non difettano le capacità, come dimostrano le buone annate 1982 e 1983: è carente lo sviluppo, con il V8 che proprio non ce la fa a concludere le corse con i 220 litri di carburante imposti dal regolamento dell’84 e – con la pressione del turbo a mezzo servizio – diventa sempre meno competitivo fino a scomparire nelle retrovie.A mo’ di cane che si morde la coda, si aggiunge la figura di un gran capo, Ettore Massacesi, che poco ha che fare con lo storico Giuseppe Luraghi: fatale a quest’ultimo, al comando dell’Alfa Romeo dal 1960, il contrasto con i vertici dell’IRI il sulla realizzazione di uno stabilimento a Pomigliano d’Arco, fortemente voluto da Ciriaco De Mita (allora Ministro dell’Industria e compagno di partito del Presidente dell’ente pubblico, Giuseppe Petrilli). Massacesi arriva nel 1974, tre prima del varo relativo al ritorno in Formula 1: proviene dall’Intersind, l’organizzazione che in Italia rappresenta le aziende dei gruppi statali IRI ed EFIM. Un manager, insomma, nominato tale e scelto dalla politica: un Presidente chiamato a far quadrare i conti, forse più esperto di questioni organizzative e lavorative che di auto in sé. A lui, tra l’altro, si deve l’accordo con la Nissan per la costruzione della sciagurata Arna e la relativa realizzazione dello stabilimento di Pratola Serra, non a caso nell’avellinese – feudo elettorale di De Mita.  Tra Massacesi (e il fido amministratore delegato Corrado Innocenti) e Carlo Chiti la frattura è immediata, netta, insanabile: riservato il primo, esuberante il secondo – e in ambo i casi, gli aggettivi sono alquanto edulcorati. Massacesi è intento a riorganizzare, sfrondare, ricollocare: il suo diktat è quello di fare con ciò che si ha – per la produzione di serie, almeno. Ben presto il credo di Massacesi – col senno di poi, il taglio indiscriminato, più che la riallocazione di risorse – si riflette anche sull’attività agonistica. E il vulcanico Chiti proprio non ci sta: lui, che con Ducarouge si scontra a più riprese, ma che ne ammette – magari a denti stretti – i meriti, dopo il siluramento (mascherato da nomina presidenziale dell’Autodelta, senza tuttavia operatività sulla struttura, peraltro già svuotata) quasi abbranca all’Estoril il giornalista di Repubblica Carlo Marincovich e vuota il sacco, mirando dritto per dritto in un’intervista-fiume.“La verità era un’ altra: – rammenta – già allora volevano eliminare l’ Autodelta e per arrivarci cominciarono a dividerla. […] Ormai si era creato il clima delle congiure di palazzo dove tutti girano nei corridoi col coltello nascosto dietro la schiena. E intanto lo sviluppo delle macchine e dei motori andava a rilento, mentre quello doveva essere l’ obiettivo primario”. Panni sporchi, a detta di Chiti, divenuti stracci dopo avere tentato di lavarli in famiglia. “Massacesi continuava a spargere la voce: cosa diavolo facciamo con queste corse? E saltò fuori il nostro sponsor a fare il nome di Pavanello. A Massacesi fu detto che con questo Pavanello si sarebbe fatto un comodato. Una bella parola che in realtà era una burla per non dire che gli si dava tutto gratis, altrimenti se l’immagina le polemiche sui giornali? Io e Ducarouge non ne sapevamo niente. Un giorno Massacesi ci convoca e ci dà la bella notizia. Purtroppo quando si imboccano queste strade non si sa mai dove si va a finire […] E pensare che in settembre a Monza Massacesi aveva ancora il coraggio di smentire in televisione”. Fine delle trasmissioni, raccontata da una delle parti più coinvolte. In modo aspro, ma col cuore. Da alfista tradito nel (proprio) grande sogno infranto.  

 

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