C’è chi il papà lo chiama per nome (in casa Rossi, se Graziano si sentisse dare del babbo da Valentino penserebbe ormai più a un insulto che a un rapporto di parentela diretta), chi il figlio lo chiama come se stesso (gli Earnhardt si distinguono con il suffisso junior e senior; peggio va tra gli Unser, con “Grande Al” e “Piccolo Al”) e chi, semplicemente, dal figlio si fa sverniciare: è il caso del povero (si fa per dire, visto che ne è anche il manager) Jos Verstappen, pilota di Formula 1 a cavallo tra gli anni Novanta e Duemila, che ha avuto la bella idea di mettere in cantiere nel 1997 il figlio Max. Che, al primo Gran Premio su un’auto che poteva puntare alla vittoria, approfittando di un autoscontro fratricida tra le Mercedes, ha innaffiato di champagne gli occupanti del podio del Gran Premio di Spagna a 18 anni, 7 mesi e 15 giorni. Ovviamente, visto che si parla di un predestinato, dal gradino più alto. Vediamo, senza pretesa di scientificità, una sorta di “top ten” dei binomi padre-figlio che si sono affacciati nel motorsport: la mancanza di scientificità di cui sopra consiste nel non stilare graduatorie, quanto piuttosto nell’evidenziarne differenze in termini di palmarés e di carattere.
1) Jos e Max Verstappen
Anziché approdare in Formula 1 con il nome completo di Johannes Franciscus, Verstappen senior ha avuto la compiacenza di farlo come Jos: classe 1972, da campione di Formula 3 tedesca si guadagna un posto da tester alla Benetton per il 1994. Di lui si dice un gran bene: peccato che, quell’anno, sia in rampa di lancio un certo Michael Schumacher da Kerpen, e che per il povero Jos la promozione a titolare (col senno di poi, a vittima sacrificale) in conseguenza di un infortunio patito da J.J. Letho si riveli una vera e propria jattura. La velocità c’è, la condotta di gara meno, visto che il salto è decisamente di quelli troppo grandi: oltre che per due podi, si fa notare per un’involontaria imitazione della torcia umana al rifornimento del Gran Premio di Germania. La stagione è quasi completa, con 12 Gran Premi disputati su 16, e non è neppure negativa. Tuttavia, Schumi vince il primo iride e i 10 punti di Jos appaiono un tantinello impalpabili. Dal 1995 in poi inizia un pellegrinaggio senza speranza presso team non proprio di primo piano, dalla Simtek alla Footwork passando per una Tyrrell in disarmo e una Stewart troppo brutta per essere vera. Conclude la carriera nel 2003 sulla Minardi, quando Max già guida (a cinque anni o poco più) un go-kart: i suoi geni, evidentemente, sono stati affinati nella seconda generazione.
2) Mario, Michael e Marco Andretti
In questo caso, bisogna solo chiedersi cosa combinerà l’eventuale figlio di Marco: già, perché Mario (non a caso chiamato Piedone per le sue qualità velocistiche: quasi un peccato, visto che la sua competenza tecnica era almeno pari) è riuscito a mettere insieme una carriera infinita, in cui ha vinto – Le Mans a parte, dove al massimo è arrivato secondo – tutto quanto, singolarmente preso, dà lustro alla carriera di un pilota: Indy 500 (oltre a quattro titoli IndyCar, tre USAC e uno CART), Daytona 500 (nell’attuale Sprint Series, quella che noi italiani chiamiamo NASCAR) e, dulcis in fundo, il Mondiale di Formula 1. Dalle prime gare al 1965 all’ultima uscita in pista (anzi, di pista, visto che disintegra una povera Dallara-Honda a Indianapolis dopo sei loop, uscendo con le proprie gambe dall’abitacolo e rilasciando serafico interviste al TG della sera). Passano 38 anni: il casco viene appeso al chiodo nel 2003 proprio dopo questo episodio. Nel frattempo, ha occasione di avere come compagno di squadra il figlio Michael, classe 1963, per quattro anni filati sotto l’egida di Paul Newman e Carl Haas: il rampollo, quattro volte vincitore del titolo nella IndyCar Series (suonandole spesso e volentieri a papà), a trent’anni ha la non brillante idea di affiancare in casa McLaren Sua Maestà Ayrton Senna. Il risultato? Un mesto licenziamento dopo l’unico podio in Formula 1, a Monza, per lasciare spazio a Mika Hakkinen. Il nipote Marco, figlio di Michael, ha esordito sfiorando a 19 anni una vittoria (nel 2006) sull’ovale di Indianapolis che avrebbe avuto del leggendario. A 27 anni è un più che onesto pilota (dopo essere apparso un predestinato) con due vittorie in carriera nella IndyCar, che corre per il team di papà Michael: lo stesso per il quale (non stona menzionarlo) nonno Mario ha eseguito l’involontario commiato da aviatore provetto a Indy tredici anni fa.
3) Dale Earnhardt sr. e Dale Earnhardt jr. (per tacere del nonno Ralph)
Il papà Ralph Dale Earnhardt, il senior di turno, era uno di quei personaggi che – se fossero vissuti un centinaio d’anni prima – non avrebbero sfigurato come cacciatore di taglie: lineamenti disegnati con l’accetta, baffi che aspettavano solo un cappello da cowboy per fare il paio e… sette titoli di Sprint Cup, quando ancora si chiamava Winston Series. Un palmarés pari a quello del solo Richard “King” Petty, ottenuto con una guida che gli ha procurato ben presto il soprannome di Intimidator. Duro, cattivo, risoluto: ben più abile del padre Ralph, che pure tra gli anni Cinquanta e Sessanta era stato il più popolare pilota di stock car del North Carolina. Intimidator se n’è andato come avrebbe voluto: in gara, nel 2001, durante l’ultimo giro della Daytona 500 (quando, a quasi 50 anni, stava puntando alla settantaseiesima vittoria in carriera). In una famiglia di corridori in cui tanto il nonno quanto il padre sono nati nella stessa, piccola e un po’ anonima città rurale (Kannapolis), non c’è da stupirsi che uno dei rampolli di Dale sia stato chiamato Ralph Dale Earnhardt, stavolta a buon titolo junior. E ancor meno da stupirsi che Junior sia nato a Kannapolis, nonché abbia fatto di tutto per correre con il numero del padre: non ce l’ha fatta a mantenere l’8 e allora ha deciso di raddoppiarlo in 88, raccogliendo 26 vittorie di tappa in diciotto anni di (ottima) carriera, ma mai un titolo. Junior per volontà divina, il più giovane degli Earnhardt: lo stesso personaggio di “Cars – Motori Ruggenti” cui ha prestato la voce nel 2006.
4) Graham e Damon Hill
Papà Graham è stato un perfetto gentleman inglese: una sorta di baronetto, impeccabile nella guida e in borghese, nato quasi per errore povero nel lontano 1929. Povero sì, ma con una poliedricità da Guinness: artificiere in marina, meccanico, attratto più dalle moto che dalle auto. Tanto che il primo contatto con una monoposto (una Cooper 500) avviene nel 1954, a causa di una pubblicità che promette l’ebbrezza della pista a soli cinque scellini; quello con un’auto “normale”, più o meno nello stesso periodo, visto che la patente di guida viene conseguita a 24 anni suonati. A dire il vero, il talento di Hill è tanto strano quanto esplosivo: il debutto in Formula 1 avviene nel 1958, il primo titolo iridato nel 1962. E’ sornione nella guida e con una condotta tattica senza eguali, Graham: vince cinque volte il Gran Premio di Monaco, trionfa alla 500 miglia di Indianapolis, conquista la 24 ore di Le Mans. E nel 1968 si porta a casa l’ultimo Mondiale di Formula 1, ritornato caposquadra dopo la morte di Jim Clark. In tarda età agonistica, diventa costruttore: la Lola Embassy-Hill sopravvive fino al 1975, quando il Piper Aztec di Graham precipita di ritorno da un test al Paul Ricard con tutto il team, compreso il promettente Tony Brise. Il figlio Damon, classe 1960, non è neppure lui un campione di precocità (e fino al 1984 corre con le due ruote), ma la gavetta risulta formativa e lo porta in Formula 1 a quasi 32 anni, dalla porta di servizio chiamata Brabham-Judd. Il suo asso nella manica si chiama, come già accaduto al papà, sensibilità meccanica: collaudatore per la Williams, viene promosso titolare nel 1993. Orfana di Senna, perito a Imola, la squadra punta su di lui per la rincorsa all’iride: Damon vi riesce, completando l’unica accoppiata iridata padre-figlio in Formula 1, nel 1996. In questo caso, i geni sono trasmessi con ottima fedeltà. E con una flemma tutta britannica.
5) Keke e Nico Rosberg
Se non fosse la comprovata paternità, tra Keijo Erik Rosberg e Nico Erik si potrebbe parlare di una parentela molto alla lontana: papà Keke è stato un pilota dal colletto blu, tutto cuore e maltrattamenti della meccanica; Nico, per contro, uno stilista che tira fuori gli artigli alla bisogna (specie con un certo Lewis Hamilton). La differenza si vede in vari particolari: Keke, alla Formula 1, ci arriva tardi, dopo un girovagare tra Formula Vee, Formula Atlantic (e Formula Pacific, giusto per stazionare un po’ agli antipodi), Formula 2 (con risultati non propriamente esaltanti) e – per dare un senso alla parola “gavetta” – un 1978 in bilico tra Theodore e ATS, non proprio due scuderie di primo piano. Eppure, nella bagnatissima Race of Champions (non valida per il Mondiale) a Silverstone, si porta a casa una vittoria che lo fa finire sui taccuini degli addetti ai lavori. L’occasione della vita arriva nel 1982: in un Mondiale falcidiato dalle disgrazie della Ferrari, che perde la coppia Villeneuve-Pironi, una sola vittoria gli vale il titolo. Legittimato, tra una monoposto violentata sui cordoli (e qualche muro) e l’altra, da due perle, a Montecarlo nel 1983 e a Dallas nel 1984. I suoi geni sono arrivati, edulcorati, a Nico: monogamo a fronte di un papà impenitente playboy (con annessa immancabile Marlboro a corroborarne lo stereotipo di macho), preciso a fronte delle curve a vita persa del genitore, il rampollo nato al sole di Montecarlo (e non nel freddo di Solna) ha surclassato papà Keke per Gran Premi vinti e ha conquistato il titolo iridato nel 2016, terminando la sua carriera da vincitore.
6) Gilles e Jacques Villeneuve
Papà Gilles è stato l’ultimo pilota capace di scaldare il cuore, notoriamente poco incline alle emozioni, del Commendator Ferrari: classe 1950, è cresciuto in quella parte del Canada che si sviluppa sulle rive del fiume San Lorenzo e che parla un francese tutto particolare, il québécois. Gli Stati Uniti sono a un tiro di schioppo, ma non sono quelli di una New York frenetica: piuttosto sono quelli, placidi e montuosi, del Vermont e del Maine (oltre a un inciso di New Hampshire). Nulla di più ovvio, per Gilles, di iniziare a correre con le motoslitte, dove sviluppa un controllo del mezzo funambolico in condizioni-limite, e di iniziare un graduale approccio alle monoposto (vendendo casa per autofinanziarsi) fino ad approdare alla Formula Atlantic. Il punto di svolta è proprio qui: per rilanciare questa sorta di Formula 2 oltreoceano, gli organizzatori mandano inviti anche ai piloti europei più blasonati; a quello per la gara sul circuito stradale di Trois Rivieres risponde James Hunt, sensibile alla sfida e al gettone di presenza. Uno sconosciuto canadese dai lineamenti gentili e l’aria del perenne ragazzino si permette di vincere rifilando 16 secondi ad Alan Jones e allo stesso Hunt, che quell’anno conquista il Mondiale in Formula 1. L’inglese segnala Villeneuve al boss Teddy Mayer, che decide di concedere una chance a Villeneuve. Il debutto avviene in Gran Bretagna nel 1977, con un buon nono tempo in prova; quanto basta per convincere Ferrari in persona a chiamarlo al posto di Niki Lauda per le ultime due gare dell’anno. Così nasce la febbre-Villeneuve, fenomeno più mondiale che solo italiano: 65 gare con la Ferrari, 6 vittorie, il secondo posto più famoso della storia (quello di Digione del 1979, dopo un duello all’ultima ruotata con la Renault di Arnoux e una serie di manovre che irridono le leggi della fisica), un numero di incidenti spettacolari di cui si perde il conto, un amore sconfinato da parte dei tifosi e l’ultimo, tragico, volo in Belgio nel 1982. In quell’anno il figlio Jacques ne ha appena compiuti 11: la sua passione si sviluppa per il kart, un’Alfa 33 guidata in Italia, qualche battuta d’arresto nella Formula 3 locale e un crescendo che, attraverso la Formula Nippon e la Formula Atlantic, lo porta nella IndyCar Series. Qui vince titolo e 500 miglia di Indianapolis, con lo stesso numero 27 di Gilles sulla monoposto. Il resto è storia (quasi) recente, con l’approdo in Formula 1 nel 1996, il titolo nel 1997 dopo aver fatto saltare i nervi a Kaiser Schumacher, e un crepuscolo tanto repentino quanto imprevedibile. Anche se, indubbiamente, all’ombra di papà Gilles, Jacques ha saputo brillare di luce propria.
7) Nelson e Nelsinho Piquet (e magari arriva anche Pedro)
Tre titoli iridati in Formula 1 conquistati con la stessa aria scanzonata da ragazzino (con una predilezione per l’altro sesso almeno pari al talento espresso in circuito) fanno il paio con rivalità neanche tanto velate con Carlos Reutemann (che, dopo avere perso all’ultima gara il Mondiale del 1981, lo ricorda come “quel ragazzino che mi ha aiutato a lavare la Brabham nel ‘74”), Nigel Mansell (con cui innesca una lotta fratricida che ha come risultato netto in casa Williams la perdita di un Mondiale già in bacheca nel 1986) e Ayrton Senna (odio viscerale a pelle, da subito, con tanto di accuse relative alla vita sessuale del rivale). Nelson Piquet, classe 1954, ha avuto da sua la versatilità e la furbizia: sempre pronto ad approfittare dell’errore altrui, ha vinto con le wing-car come con le monoposto con motore turbo, domando il mostruoso 1.5 BMW da più di 1.000 CV/litro. In tipico stile-Piquet la scazzottata con Salazar in Olanda nel 1982 (dopo che il cileno, doppiato, gli preclude una possibile vittoria speronandolo) o la salita sul primo gradino del podio in Canada, nel 1985, scalzo: galeotto è un radiatore dell’olio posto davanti alla pedaliera che lo ustiona, ma non gli impedisce di concludere vittorioso la gara. Il figlio Nelson Angelo (Nelsinho, a causa dello spassionato amore dei brasiliani per i diminutivi) nasce grazie alla fattiva collaborazione della moglie olandese Silvia (per certi versi, più bollente del radiatore canadese) e arriva in Formula 1 nel 2008 con la Renault. Coglie un podio in Germania ma, l’anno dopo, viene appiedato: decide così di portare in tribunale la propria squadra rivelando il Crashgate di Singapore, quando obbedisce agli ordini di Flavio Briatore (poi radiato a seguito dell’accaduto) decidendo deliberatamente di andare a muro per favorire la vittoria dell’ingombrante compagno Fernando Alonso. Con un bel po’ di soldi in saccoccia a mo’ di risarcimento, Nelsinho emigra presto – non molto rimpianto – verso altri lidi. Adesso preferisce il silenzio della Formula E, risultandone il primo campione della storia (nel 2014). Ma potrebbe non essere finita, vista la prolificità di papà Nelson: in rampa di lancio c’è anche il figlio Pedrito, classe 1998.
8) Wilson e Christian Fittipaldi
Il trasferimento di geni da corsa tra papà Wilson e il figlio Christian c’è stato, è vero, ma quelli più nobili se li è tenuti in esclusiva zio Emerson, “O Rato” campione del Mondo di Formula 1 nel 1972 e nel 1974, nonché di Formula Cart nel 1989 (e, tanto per gradire, due volte trionfatore nella 500 Miglia di Indianapolis). Wilson, classe 1943, è il maggiore dei fratelli Fittipaldi (Emerson è del 1946), ma si trasferisce in Europa solo a 26 anni, dopo avere messo su famiglia (ed essere stato ostacolato a più riprese dalla moglie, mentre Emmo, da bravo scapolo, pensa solamente alle corse). Dopo un’onesta trafila in Formula 2, approda a quasi trent’anni nella categoria superiore, affittando da Bernie Ecclestone per il 1972 il seggiolino di una Brabham: è settimo al debutto in Spagna in un Gran Premio che vede per la prima volta nella storia due fratelli al via, e chiude la carriera con 35 partenze su 38 tentativi (e un quinto posto al Nürburgring nel 1973). Poca roba a confronto del fratello (da lì a breve coinvolto nel fallimento sportivo della Copersucar-Fittipaldi, prima e unica monoposto made in Brazil della storia), ma in linea con quanto fatto anni dopo da Christian. Approdato in Europa a vent’anni, nel 1991, vince al debutto il campionato di Formula 3000, guadagnandosi un posto alla Minardi. Tre sono le stagioni complessivamente disputate, prima di ricostruirsi una carriera oltreoceano (e sfiorare la vittoria a Indy nel 1995): due quarti posti i migliori risultati (uno con la Minardi nel ‘93 e uno con la Footwork nel ‘94) e un incidente con il compagno di squadra Barbazza a Monza, nel 1993, concluso con incruento giro della morte e il traguardo tagliato sui resti della monoposto faentina. Da stuntman consumato più che da pilota provetto: uno dei tanti talenti, validi se non validissimi, forse campioni ma certo non campionissimi, che si sono affacciati fugacemente alla ribalta della Formula 1.
9) Satoru e Kazuki Nakajima
A meno che la cicogna non porti un erede (di Kazuki) con le stimmate del campioncino, la famiglia Nakajima non è destinata a passare alla storia della Formula 1. Il papà, Satoru, è stato il primo giapponese a corrervi stabilmente, dopo qualche estemporanea uscita di coraggiosi compatrioti negli anni precedenti (con tanto di giro più veloce al Fuji di Masahiro Hasemi nel 1976, ma si trattò di un errore di cronometraggio, visto che nella tornata in questione – col senno di poi neanche tanto veloce – il nipponico fu superato da qualcosa come tre vetture): imposto dalla Honda alla Lotus come contropartita della fornitura di motori alla scuderia inglese, si trova come compagno di squadra Nelson Piquet. Non uno qualsiasi, bensì un tre volte iridato (pur se in fase calante): il confronto è impietoso, anche se il prode Satoru si rifà con un giro più veloce (stavolta valido) nel bagnatissimo Gran Premio d’Australia del 1989. Ironia della sorte, su una Lotus orfana del motore Honda ed equipaggiata col modesto Judd. La carriera in Formula 1 dura altre due stagioni, stavolta alla Tyrrell (che, non a sorpresa, l’ultimo anno monta motori Honda), con la stessa costanza del debutto, da encefalogramma appena percettibile ma neppure da ultimo della classe. Con il figlio Kazuki, le cose cambiano: nel senso che è la Toyota a spingerlo e non più la Honda, come successo a papà. Due le stagioni complete di Kazuki sulla Williams-Toyota: il 2008 a fianco di Nico Rosberg, chiuso con nove punti, e il 2009, rovinosamente a quota zero (in pratica, passato sotto lo schiacciasassi dal compagno di squadra). Senza dimenticare il debutto, nell’ultima gara del 2007, in Brasile: punti zero (decimo al traguardo) ma due commissari travolti – se non altro, con quasi nessuna conseguenza per i malcapitati.
10) Graziano e Valentino Rossi
“Che papà ero? Secondo me non coinvolto al punto giusto. Facevo un lavoro che mi prendeva, oltre al tempo, tanto interesse, cuore, testa, animo”: Graziano Rossi, parlando dell’arcinoto figlio Valentino, non (se) le manda a dire attraverso le colonne della Gazzetta dello Sport. Nato ribelle, è stato una delle più concrete speranze per il post-Agostini: non difettava il talento (e nemmeno la personalità, a volte sin troppo eccentrica, ricordando l’aneddoto che lo vede passeggiare per la natìa Pesaro con una gallina al guinzaglio), mentre si sono rivelati deficitari un po’ i mezzi meccanici e molto la fortuna. Nel 1980 un incidente stradale tronca di fatto una carriera che avrebbe potuto dare molto di più (e che, nel 1979, aveva portato un bel terzo posto in 250, con annessa vittoria ad Assen, pochi mesi dopo la nascita di Valentino); nel 1982, durante una gara di campionato italiano della 500, ci vuole il Dottor Costa per salvargli la vita dopo una caduta alla Tosa di Imola con un massaggio cardiaco (tra l’altro, attraversando la pista per la gioia delle coronarie degli altri concorrenti). Ce n’è abbastanza per appendere il casco al chiodo e cercare di favorire l’ascesa del figlio che, prima enfant prodige e poi vecchio leone, ha riscritto a colpi di record della storia del motociclismo.
Di Valentino Rossi, ormai, ogni cosa è nota: nove titoli iridati, con il decimo svanito sul filo di lana, 115 vittorie (e 235 podi) su 432 gare disputate, un numero di dualismi che copre tre generazioni di piloti, il possibile tradimento alle due ruote quando si vociferava di un passaggio in casa Ferrari (ma l’avrà mai pensato seriamente?), il declino alla Ducati rinviato ritornando all’ovile targato Yamaha, e la voglia di non smettere fino al 2021, quando chiude la sua carriera in sella a una Yamaha. Un po’ meno col sorriso da bimbo di quando ha iniziato.