Parigi e Dakar. In mezzo migliaia di chilometri, un deserto, condizioni climatiche e culturali opposte. Due mondi che difficilmente potrebbero essere più diversi, ma che da oltre quarant’anni sono diventati un tutt’uno nell’immaginario collettivo.
Anche se non tutti la conoscono davvero, praticamente chiunque ha sentito parlare della Dakar. E questo grazie ai suoi simboli. Uomini che, guidando attraverso il Sahara e suoi ostacoli, hanno ispirato le successive generazioni di piloti e appassionati con un grande impatto nella sfera motoristica tutta.
Se uno di questi simboli è morto 35 anni fa, un altro l’abbiamo perso da pochi giorni. Thierry Sabine e Hubert Auriol sono stati i pionieri di una manifestazione su cui difficilmente si spegneranno i riflettori, tanto è radicata nella nostra cultura, e che ha fatto da apripista a svariati eventi. Due avventurieri che hanno portato lo stile parigino tra le dune, combinandolo con i colori vivaci di auto e moto e a cui ancora oggi si ispirano il mondo dei motori e della moda.
«Il deserto mi ha lasciato vivere, il deserto mi richiama». Giovane, ricco e spericolato, il Bel Sabine si fece guidare per tutta la vita dalla passione. Già ideatore gara francese Enduropale du Touquet, e reduce da una disavventura che lo vide disperso per tre giorni e tre notti nel deserto senza cibo né acqua, maturò la stravagante idea di portare un rally di folli e incoscienti inseguitori di sensazioni forti dalla capitale francese alla spiaggia di Dakar. Attraverso 15mila chilometri di deserto e piste, riuscì a trasformare una passione per pazzi in un avvenimento sportivo che diventò sorprendentemente popolare e desiderabile, nonostante i terribili rischi cui andavano incontro i concorrenti pur di prendere parte alla corsa. Dal 1979, anno della prima edizione, ogni volta la sconsiderata sfida provocava incidenti e mieteva vittime, annientando auto e moto in una spietata odissea.
«Questa corsa insegna una cosa, che bisogna sbrigarsela da soli». Era la legge della Paris-Dakar, un’intuizione che si rivelò vincente e che appagava la sete di avventura e brivido di tanti fanatici disposti a sopportare fatiche estreme per vivere un’avventura straordinaria in un ambiente ostile e impietoso. Era il prezzo da pagare per sentirsi degli eroi.
Ma, alla fine, il deserto gli presentò il conto. Era il 14 gennaio 1986 quando, sorvolando i concorrenti del suo rally Paris-Alger-Dakar nel deserto del Mali a bordo di un elicottero, una tempesta di sabbia ne provocò lo schianto e Thierry, assieme agli altri quattro passeggeri, bruciò nell’esplosione.
Fu una morte spietata, maledetta e più che mai simbolica, che fece di quel trentaseienne avvenente e carismatico un eroe romantico, ucciso dalla sua stessa, crudele e splendida, creatura
Meno poetica ma comunque prematura anche la scomparsa di Hubert Auriol. Francese di origine etiope, L’Africano è morto lo scorso 10 gennaio a 68 anni dopo una lunga battaglia contro le malattie cardiache e complicazioni dovute al Covid-19.
Auriol è stato uno dei giganti del raid negli anni Ottanta e Novanta, il primo a vincerlo sia in moto sia in auto, impresa poi eguagliata da Stéphane Peterhansel e Nani Roma. In gara fin dalla prima edizione, alzò il trofeo nel 1981 e 1983 nella categoria moto con BMW, si BMW la nonna di quelle R 1250 GS che ancora oggi dominano le classifiche di vendita, sfiorando poi un terzo successo nel 1985 su Cagiva. Furono soprattutto i suoi epici duelli con Cyril Neveu – in particolare nel 1987, quando perse dopo essersi fratturato entrambe le caviglie nella penultima tappa – a consacrare lui e la Paris-Dakar dei miti. In seguito passò alle auto per vincere, nel 1992, la Paris-Syrte-Le Cap su Mitsubishi.
Come Thierry Sabine, dal 1994 al 2003 Auriol diresse la gara per conto della società organizzatrice ASO, partecipandovi in un’ultima occasione su Isuzu nel 2006, per poi fondare L’Africa Race quando, nel 2008, la Dakar si trasferì in Sudamerica.
Ma, tra un rally e l’altro, il francese conquistò un altro record. Nel 1987, insieme con Henri Pescarolo, Patrick Fourtick e Arthur Powell, compì il giro del mondo su un bimotore Lockeed 18 Lodestart, coprendo la distanza di quasi 24mila chilometri in poco più di 88 ore.