L’ultima presenza sul campo di gara da addetto ai lavori – in alternativa, si può parlare senza ombra di dubbio di leggenda vivente, mai banale e spesso caustico nei giudizi – risale al 2018, da presidente non esecutivo della Mercedes. Affrontata con il dieci per cento di quote del team in tasca, due matrimoni con donne bellissime, cinque figli (di cui uno nato da una relazione extraconiugale), 25 gran premi vinti su 171 disputati in Formula 1, tre Mondiali piloti conquistati, grandi litigate con Enzo Ferrari, varie incursioni nel campo dell’aviazione civile (si può azzardare l’ipotesi che fosse il volo la sua vera passione), un disastro aereo affrontato nel ’91 con il cuore pesante e spirito feroce (anche grazie alla sua ostinata difesa, la Boeing fu costretta a modificare il sistema di attivazione degli inversori di spinta dei 767), due reni e un polmone trapiantati e l’aura di leggenda vivente che, con buona probabilità, ha sempre rifiutato.
Il Niki Lauda di Hockenheim 2018 non appariva sofferente: non era, per capirci, il Gunnar Nilsson che si aggirava per i paddock della Formula 1 nel 1978, devastato dal cancro e in grado di sorreggere la bara del connazionale Ronnie Peterson dopo la tragedia di Monza salvo poi morire un mese dopo. Era paffutello, con lampi di assoluto carisma a precederlo, presente con l’autorità di chi è nato leader e ha sempre agito controcorrente. Non aveva quel che si suol definire “le physique du rôle”, Lauda, né mai lo ha avuto. Per lui il corpo era funzionale all’obiettivo. E quello giovanile, senza dubbio, faceva il paio con le corse automobilistiche. Non era un Dio pagano alla François Cévert o alla James Hunt: non aveva la paura di un Johnny Servoz-Gavin né quella genuinità derivante dalla prolungata gavetta di un Vittorio Brambilla. In Germania, era un signore debilitato dall’influenza. Almeno, così si pensava fino al successivo epilogo fatto di cartelle cliniche, speranze e definitivo commiato dalla vita.
Eppure, Lauda è riuscito a scalare una montagna di pregiudizi, forte di un pragmatismo tutto teutonico e di una fede incrollabile in se stesso. Figlio di papà lo era, certo, ma senza potere fruire di uno scellino: ha iniziato a correre (eresia in una famiglia di banchieri) facendo debiti e comprando sedili qua e là. Ha sempre avuto un rapporto di rispetto e di accumulo con il denaro, anche quando era già Niki Lauda: quando la Formula 1 non era così vincolante come oggi, si è permesso di correre – era il 1979 – il campionato Procar sulla BMW M1. Contro i colleghi della massima formula, le speranze delle categorie minori, gli assi degli Sport Prototipi e i piloti dell’Europeo Turismo: per spirito competitivo e i premi spettanti ai primi classificati, beninteso. Quel campionato, Niki lo vinse: quasi un dovere di cronaca riportarlo, perché l’austriaco – a dispetto di una parabola discendente che faceva il paio con l’ascesa del compagno di squadra nella Brabham F1 Nelson Piquet – il primo posto lo aveva nel DNA.
Impossibile non attribuirgli anche quella solitudine che deriva dal rispetto, quasi dalla deferenza altrui, ma non dalla innata simpatia: quest’ultima, magari, andava lasciata a Clay Regazzoni. Che Niki se l’era portato in Ferrari nel 1974, sulle ceneri di un Cavallino da rifondare dopo una stagione 1973 quanto mai grigia e in virtù dei buoni rapporti con il Commendatore. Il titolo sfumò per mille motivi, primo su tutti il fatto che a Maranello si decise di puntare, più che sul cavallo di ritorno di Porza, sull’emergente austriaco. Mai diplomatico eppure capace di essere più politico di Clay, capace di trattare da novellino il contratto con Enzo Ferrari con la tenacia di un manager consumato, e terribilmente veloce con la B3 uscita dal tecnigrafo di un giovane e brillante Mauro Forghieri.
Era così, Niki: un Sansone senza autolesionismo, eppure capace di sacrificare il bene comune al proprio obiettivo. La vittoria era scopo finale, senza divenire mistica ossessione – alla Senna, per dirla tutta: bastavano i piazzamenti, e spesso la semplice presenza per ammansire gli avversari. Il percorso quasi netto 1975-77 con la Ferrari, dove il “quasi” fa il paio con l’incidente del Nürburgring , mai sopito e hollywoodianamente celebrato nel film Rush viene soffocato dal passaggio, condito da un mare di polemiche e frecciate neanche tanto implicite, alla Brabham-Alfa nel 1978.
E’ del 1981 un libro di Domenico Barili, ex braccio destro di Calisto Tanzi e in seguito affondato con quest’ultimo, che ben descrive l’operazione del secolo: “Niki Lauda, pilota e personaggio” è una storia di rapporti personali, di marketing e di come l’austriaco vestirà per decenni il cappellino Parmalat. Vincendo un paio di Gran Premi nel 1978 e, l’anno successivo, dicendo laconicamente a Marlene, l’allora bellissima moglie, “Chiudiamo le valigie, si torna a casa”. Erano in Canada, Niki salutava così. Sostituito al volo dopo le prime libere da Ricardo Zunino, pilota non propriamente di primissimo piano, che a Montréal era spettatore interessato (e ingaggiato praticamente sulle tribune: non da meravigliarsi granché, allora andava così). Già con la testa alla Lauda Air, è possibile che il sornione Lauda possa avere sogghignato ripensando a un’epica battuta a lui attribuita da un vignettista di Autosprint: “Grande Kasino”.
Kasino sì, ma ben gestito. Lauda è rimasto credibile nei vari dietrofront e cambi di bandiera: il ritorno in Formula 1 alla McLaren che gli ha fruttato il terzo Mondiale piloti; credibile nel declino, addolcito con la vittoria finale di Zandvoort nel 1985 davanti al compagno di squadra, allievo e rivale Prost (con una condotta di gara che avrebbe potuto dare origine al manuale della perfetta difesa della posizione), credibile nei suoi impegni con la Jaguar prima e con la Mercedes poi.
A proposito di Mercedes, indimenticabile la corsa dei Campioni organizzata dalla Stella nel 1984, al Nürburgring, per il lancio della 190 E 2.3 16: auto uguali, si corre su invito (e non per la gloria), con Niki che arriva secondo, davanti a Carlos Reutemann, preceduto da un giovane brasiliano di belle speranze – che di lì a breve sarebbe diventato Ayrton Senna.
Incorreggibile pragmatismo austriaco: perché, se è vero che le leggende si creano sul campo e sopravvivono a se stesse, diventarlo sulle note di un valzer lungo 70 anni, rifuggendo da una retorica che il fuoco ha cesellato sulla sua pelle, non è da tutti. E’ solo da Niki Lauda.