Primo agosto 1976: va in scena al Nürburgring (quello vero, l’Inferno Verde della Nordschleife con più di 22 km di saliscendi, curve assassine e rettilinei da mozzare il fiato) l’ottava prova di un Mondiale già scritto. Niki Lauda, l’austriaco alla corte del Commendator Ferrari, è il campione in carica destinato a un facile bis, forte di quattro vittorie, tre secondi posti (quello in Inghilterra sarebbe stato poi tramutato, a fine settembre, in primo posto grazie alla squalifica di James Hunt) e un terzo: l’unico ritiro è in Francia a causa di un guasto al motore. La matematica concede qualche chance agli inseguitori – su tutti, James Hunt su McLaren e i due alfieri della Tyrrell Patrick Depailler e Jody Scheckter; la logica no. La Ferrari è superiore in tutto, e la crescita della McLaren pare destinata a regalare qualche soddisfazione a Hunt, fino ad allora più sregolatezza che genio.Ha piovuto sulla Nordschleife, quel tanto che basta per rendere vana la sessione di qualifica del sabato e regalare ad Hunt la pole in virtù del 7’06”5 siglato il venerdì. Tra lui e l’ultimo qualificato, l’esordiente bergamasco Alessandro Pesenti-Rossi su una Tyrrell privata, 42 secondi esatti: un’enormità. I giri previsti il 1 agosto sono 14, pari a 319,690 km in cui l’unico imperativo è quello di non commettere errori. Già, perché il Ring non perdona – lo insegna la storia e l’Inferno Verde (la definizione è di Sir Jackie Stewart, non di un qualsiasi pilota) lo dimostra anche questa volta. Al via in molti scelgono le slick: non Niki Lauda, che dopo una sola tornata rientra ai box per montarle dopo avere perso diverse posizioni. Quello che accade subito dopo è un mix di cronaca arcinota, ma anche di misteri: mai è stato chiarito il motivo dell’uscita di strada: errore umano, come ha sempre sostenuto Maranello, o guasto meccanico, come è pronto a giurare il fidato meccanico di Niki, Ermanno Cuoghi? La Ferrari numero 1 arriva alla curva di Bergwerk, perde aderenza, si scompone e colpisce una roccia. Di qui una carambola tanto breve quanto drammatica: Lauda è senza casco, perso nell’impatto, cosciente ma intrappolato in una Ferrari che subito s’incendia. C’è chi lo evita (la Hesketh di Edwards), chi lo colpisce (l’altra Hesketh di Ertl e la Surtees di Lunger), chi lo aiuta: gli eroi di turno sono quattro. A sfidare le fiamme sono l’inglese Guy Edwards, l’austriaco Harald Ertl, lo statunitense Brett Lunger e l’italiano Arturo Merzario. Quest’ultimo è stato defenestrato proprio dall’austriaco l’anno prima: dal seggiolino della Ferrari deve arrangiarsi con monoposto che spesso arrancano nelle ultime posizioni. E’ sanguigno, Arturo, l’esatto opposto di Lauda: lui, le cose, ama improvvisarle, non pianificarle. Stavolta stupisce anche se stesso: “Ancora non ho capito che cosa mi spinse, quel giorno, a fermare la macchina – così anni dopo in un’intervista concessa a Repubblica – Non era il primo incidente drammatico che mi capitava di vedere in pista; tutte le altre volte ho continuato la mia corsa, come del resto facevano e fanno tutt’oggi i piloti. Quel giorno ci fu qualcosa, e ancora non ho capito cosa, che mi suggerì, anzi mi impose di fare altro, di fermarmi, di scendere dalla macchina e correre verso Niki”.Brett Lunger, che in precedenza è stato marine e ha trascorso un periodo non proprio di ferie in Vietnam, tentenna; Edwards ed Ertl aprono con gli estintori delle proprie auto la via a Merzario, che si dirige verso il neanche tanto amato austriaco. Lauda si dimena, bloccato dalle cinture di sicurezza e divorato dal fuoco; per due volte Arturo tenta di slacciare le cinture senza riuscirvi e deve indietreggiare per non rimanere intossicato dal fumo. La terza è quella buona, perché Niki sviene. Il comasco lo estrae di peso dalla Ferrari, “come un pacchetto di sigarette”, per dirla come fece tempo dopo lo stesso Merzario. L’immagine di Lauda a bordo pista fa il giro del mondo: sotto shock, con il viso deturpato dalle fiamme e insanguinato. E con i polmoni che hanno respirato per istanti interminabili carburante e metallo combusto. Lotta tra la vita e la morte, Niki: la sua Via Crucis passa per l’ospedale militare di Coblenza, il reparto specializzato di Ludwigschafen e l’ospedale di Mannheim, dove gli viene data l’estrema unzione.A dispetto di ciò, quaranta giorni dopo torna in pista a Monza. In tempo per arrivare quarto con una gara leonina, sconfiggere a tempo di record i propri fantasmi, perdere un Mondiale già vinto in estate con un forfait sotto il diluvio del Fuji, prendersi la rivincita su Hunt con un 1977 trionfale e congedarsi tra mille polemiche dalla Ferrari, direzione Brabham. Il resto viene tramandato dalla memoria e dagli almanacchi sportivi: il primo ritiro sul finire del 1979, la passione per l’aeronautica civile, il ritorno nel 1982 e il terzo iride nel 1984. Non senza un rimpianto, legato proprio a quel 1 agosto 1976: “Non dissi mai grazie a Merzario per avermi salvato la vita, non andai mai da lui a stringergli la mano di persona, ad abbracciarlo. E’ una cosa di cui mi pento ancora adesso, una ferita che brucia, più delle cicatrici che ho”. A dire il vero, qualcosa viene organizzato nel 1977: si dice che Niki si sfilò dal polso un Rolex e che Arturo lo rispedì al mittente in modo colorato – un eufemismo per coprire un solo, ma significativo, invito su dove riporlo. Il fuoco, che pure ha lasciato ancor oggi i segni su Niki Lauda, era domato; una rivalità sportiva che si sarebbe tramutata nel tempo in sincera amicizia, non ancora.