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Adrian Fartade, piangere è punk

Una vita in altalena tra la Terra e le stelle. Adrian Fartade, divulgatore scientifico, storico dell’astronomia e youtuber dai grandi numeri, riporta i progressi dell’essere umano in fatto di esplorazione spaziale, passando dal suo percorso personale di ribellione contro gli stereotipi e i pregiudizi, combattuti e vinti con l’ottimismo e la razionalità

La natura sta cercando di distruggerci? Sì, ma non è tutto perduto. D’altronde, è ciò che l’universo ha sempre fatto attraverso le condizioni estreme dei suoi territori più remoti, le catastrofi ambientali che stravolgono il nostro ecosistema, i virus che minacciano la nostra sopravvivenza. Ma, come spiega lo storico dell’astronomia Adrian Fartade, fino ad oggi ce la siamo sempre cavata. Abbiamo trovato il modo per ripararci e sfruttare ogni risorsa per proseguire il soggiorno su questo pianeta, anche quando sembrava impossibile. Non solo: come se non bastasse, noi esseri umani abbiamo avuto la sfrontatezza di spingerci oltre i confini della Terra, esplorando lo spazio e costruendo basi orbitanti dove, da vent’anni, alcuni di noi vivono regolarmente. Tutte conquiste rese possibili grazie alla nostra testardaggine, che ci ha fatto trovare soluzioni per spingerci sempre un po’ più in là e raggiungere obiettivi straordinari.

Una storia, quella del mondo, che è anche quella di tutti noi, che fatichiamo ogni giorno per andare avanti anche quando la strada è in salita, trovando il modo di continuare a camminare. E di forti pendenze è stata la vita di Adrian. Rumeno, 34 anni, in Italia da quando ne aveva 15, Fartade oggi è un divulgatore scientifico ma, prima di poter svolgere il lavoro che sognava, ha dovuto superare una serie di ostacoli e pregiudizi. E oggi, tramite il suo canale YouTube, dice a tutti: «Ehi, si può fare!».

Adrian Fartade divulgatore scientifico
Ph. Matteo Foresti

Partiamo da un classico: qual è l’errore più clamoroso commesso in un film di fantascienza diventato cult?
«In Armageddon si vedono gli shuttle planare come se ci fosse aria intorno, anche se nello spazio non c’è, ragione per cui non possono esistere nemmeno le fiamme che si vedono sugli asteroidi. In più nel film si dice che l’asteroide è grande quanto il Texas – ovvero oltre mille chilometri, che corrispondono al diametro di un pianeta nano – e per contrastarlo provocano un buco di soli quattrocento metri. Inoltre nello spazio c’è il vuoto e all’interno degli asteroidi spesso ci sono vaste parti cave, per cui non è detto che far esplodere un asteroide di grosse dimensioni con una singola deflagrazione possa funzionare: servirebbe molta più energia di quella che si vede nel film. In generale, Armageddon è l’insieme di una serie di tanti errori che sono rimasti nella cultura popolare su come funziona lo spazio».

La fantasia dell’uomo nell’inventare storie, quando si è più avvicinata alla realtà e quando, invece, ha sbagliato clamorosamente?
«È molto interessante vedere come si immaginava il futuro in film e serie di fantascienza degli anni Sessanta, perché alcune cose sono diventate d’ispirazione per creare oggetti che esistono realmente. Tablet e smartphone con touchscreen si vedono in Star Trek, e i fantascientifici motori ionici delle navicelle all’epoca erano solo teorici, invece ora li utilizziamo: l’Agenzia Spaziale Europea ESA, per esempio, in collaborazione con l’Agenzia Spaziale Giapponese JAXA, che in questo momento è impegnata nella missione BepiColombo – così chiamata in onore di un astrofisico padovano – rappresenta le fondamenta del programma di esplorazione di Mercurio e utilizza quattro motori ionici. Il discorso opposto, invece, riguarda soprattutto le macchine volanti. Continuiamo a pensare che nel futuro arriveranno, ma il difetto maggiore di mezzi del genere siamo noi, perché richiederebbero un controllo molto maggiore rispetto a quello di navigare in due dimensioni: immaginiamo il traffico di Roma o Milano ma in tre dimensioni in volo… un disastro!». 

Siamo tutti astronauti

A che età ti è venuto il primo sussulto, magari vedendo un astronauta? Chi ti ha ispirato? Come ti è scattata la curiosità?
«Alle elementari, quando per la prima volta ho sentito dire che la Terra è un pianeta facente parte del Sistema solare che orbita intorno al Sole. In quel momento ho capito di essere un astronauta, un esploratore di un pianeta, e ho provato un grande senso di concretezza per quello che avevo tra le mani: ogni volta che afferravo una roccia pensavo che i minerali che conteneva si erano formati nell’arco di milioni di anni sulla Terra. Per me che ero bambino, si trattava di un modo tangibile di considerare l’esplorazione di un pianeta. A questa scoperta si è unita la mia passione per Jack London e i suoi romanzi, ed ecco perché è cresciuta spontaneamente in me la voglia di condividere il senso di avventura che sperimentavo anche attraverso il teatro».

Suppongo che quando si intraprende la strada della divulgazione si sia consapevoli che subito non si riuscirà a mantenersi con questa attività, ma si vada avanti per passione. Quanto pesa vedere che persone che producono contenuti frivoli e superficiali che non richiedono preparazione guadagnano anche molto, e invece per divulgare sono necessari preparazione, competenza, studio e impegno continui prima di vedere riconosciuti i propri sforzi?
«Venendo dal mondo del teatro so quanto sia difficile far ridere le persone e mi rendo conto che, sebbene i contenuti di alcuni creator appaiano molto frivoli, in realtà sono complicati da realizzare in modo da accontentare un pubblico ampio e trovare la chiave per intrattenerlo. Poi è vero, ci sono contenuti che diventano virali solo per essere delle prese in giro. Sotto certi punti di vista è faticoso da accettare: come quando, di recente, mi sono impegnato per settimane per raccontare la partenza di quattro astronauti per una missione nello spazio di sei mesi con una navicella della SpaceX, e la maggior parte delle visualizzazioni è andata alla trasmissione Uomini e donne. So che gli argomenti che riguardano lo spazio sono percepiti noiosi e complessi, ma in realtà il mondo della scienza e delle scoperte è pieno di temi coinvolgenti, solo che non vengono raccontati in quel modo, solitamente. In genere le persone hanno il timore di avvicinarsi al mondo della scienza perché pensano serva molta preparazione per capirci qualcosa, un po’ come se non si potesse ascoltare musica a meno di non conoscere qualcosa sulla composizione e sulla lettura degli spartiti. Ma non ci approcciamo così alla musica: ci si può tranquillamente godere una traccia senza per questo dover sapere comporre. E nessuno si pone questo problema, perché della musica si prende solo la parte dell’intrattenimento. Ciò non accade con la scienza: a scuola quasi mai si mostra ai ragazzi quanto è incredibilmente bella e divertente questa disciplina, ma si fa fare loro solo la parte del solfeggio: ecco perché credo che molti rimangano segnati da questo percorso e poi non ne vogliano più sapere, perché quando sentono parlare di scienza ritorna in mente quell’approccio lì. Tramite il teatro io cerco di mostrare alle persone il lato artistico ed emotivo della scienza e dell’esplorazione, con lo scopo di trasmettere quanto sono appassionanti, belle, divertenti, per far capire che sono qualcosa con cui svagarsi, tanto quanto le cose più frivole. Conoscere cosa succede dietro a un razzo che parte dalla Terra può appassionarti tanto quanto guardare Uomini e donne!».

Adrian Fartade divulgatore scientifico

Quanto hai investito a titolo promozionale prima di farne una professione? Hai dovuto fare altri lavori per portare avanti la tua passione?
«I momenti in cui restavo sveglio la notte pensando: “Che cosa sto facendo con la mia vita?” sono stati una costante per moltissimo tempo. Avevo detto ai miei insegnati di voler usare il teatro per parlare di scienza, ma nessuno di loro conosceva la divulgazione; gli unici a occuparsene in Italia erano Piero e Alberto Angela, ma erano visti come conduttori televisivi, come se non ci fosse altro modo di fare un lavoro simile. Alla fine ho dovuto fare da solo ed è stato molto complicato. Ero un adolescente insicuro circondato da adulti che mi ripetevano di dover scegliere una professione già esistente, togliendomi la possibilità di poter inventare me stesso. Per questo penso che una delle peggiori domande che si rivolgono ai bambini sia: “Che cosa vuoi fare da grande?”. Perché non significa: “Che cosa ti appassiona?”, questo si dovrebbe chiedere loro. Poi, ci sono milioni di modi per trasformarlo in un lavoro: genitori ed educatori devono preparare le nuove generazioni di bambini ad affrontare un mondo che avrà lavori che neanche immaginiamo, e fissarsi su che tipo di professione vorranno fare li cristallizza all’idea di dover scegliere tra quello che c’è. Invece deve passare il concetto che il mondo è plasmabile come i pezzi Lego: bisogna avere un’idea di cosa appassiona, prendere a scuola le conoscenze necessarie sotto forma di mattoncini e comporre qualcosa di nuovo. L’aspetto più gratificante del mio percorso è la sensazione di aver creato qualcosa di inedito, di aver ideato un tipo di lavoro forgiato nel modo in cui l’ho voluto, plasmato intorno a me. Ho dovuto aspettare anni prima di poter vivere di questo e ho fatto una marea di lavori: il fornaio, l’operaio, il muratore… tutte le estati, per tutto il tempo dell’università e anche dopo, ho lavorato per mettere dei soldi da parte per poter fare divulgazione senza mai fermarmi. Quindi, se qualcuno ha un desiderio, dico di plasmare il mondo attorno a sé e trasformare la sua idea in realtà. È faticoso ma si può fare. È questa la cosa più importante che ho scoperto crescendo».

Penso che una delle peggiori domande che si rivolgono ai bambini sia: “Che cosa vuoi fare da grande?”. Perché questa domanda non significa: “Che cosa ti appassiona?”, questo si dovrebbe chiedere loro. Poi, ci sono milioni di modi per trasformarlo in un lavoro: genitori ed educatori devono preparare le nuove generazioni di bambini ad affrontare un mondo che avrà lavori che neanche immaginiamo

La missione Crew-1

Lo scorso 16 novembre è iniziata la missione Crew-1: qual è il suo scopo? Servirà anche per prepararsi al ritorno sulla Luna?
«Indirettamente sì. Il programma Artemis, su cui stanno iniziando a collaborare sempre più nazioni, è nato con lo scopo di tornare sulla Luna durante gli anni Venti. Attualmente è difficile ipotizzare una data, perché tutto dipende da come andranno le prime missioni: lo scenario migliore prevede una missione in orbita lunare, per la prima volta dai tempi delle Apollo di mezzo secolo fa, intorno al 2024-25. In base a come va la costruzione del lander (veicolo d’atterraggio ndr), inoltre, avremo una data più sicura riguardo a quando scenderemo sulla superficie della Luna. Per questa ragione abbiamo bisogno di fare pratica per esempio con nuovi sistemi di guida e tute spaziali, e la Crew-1 sta testando sulla Stazione Spaziale Internazionale ISS nuovi modi per fare esperimenti sulla Luna o in orbita lunare, oltre agli attracchi in automatico che sta già compiendo la navicella Crew Dragon per far sì che siano sempre più precisi. Quindi, da questo punto di vista la ISS è una palestra che ci preparerà a utilizzare tutte le tecnologie che ci serviranno per progetti ancora più ambiziosi da realizzare sulla Luna e, più avanti, su Marte. Servono tempo e pazienza, ma penso che questa sia la volta buona, perché non siamo mai stati così vicini all’obiettivo: il razzo è pronto per il suo primo lancio, la navicella spaziale Orion, che ci porterà fino alla Luna, ha già pronto un modulo di servizio, ovvero la parte in cui sono presenti i motori e i pannelli solari per alimentare e mantenere in vita gli astronauti al suo interno; tra l’altro viene costruita in Europa, e ci sono anche aziende italiane che ne hanno costruito alcune parti. E mi commuovo al pensiero che la prima persona che metterà di nuovo piede sulla Luna sarà una donna: una decisione presa per mandare un forte messaggio e mostrare che abbiamo fatto enormi progressi da quando, ormai 52 anni fa, siamo andati sulla Luna e alle donne era proibito fare l’astronauta. Allora, a livello simbolico, invece del militare Buzz Aldrin era stato scelto Neil Armstrong, in quanto civile, per comunicare che si trattava di una missione di pace. Allo stesso modo, in questo caso il significato che si vuole veicolare è: “Non siamo quelli di cinquant’anni fa”. Metà del corpo astronauti ora attivo nel nuovo programma della NASA è composto da donne, ed è giusto che passi un messaggio forte per quello che ci aspetta in futuro».

SpaceX NASA astronauti
Da sinistra: gli astronauti Mike Hopkins, Victor Glover, Shannon Walker e Soichi Noguchi della missione Crew-1 della SpaceX (Expedition 64). (Ph. SpaceX)

Conoscere questi aspetti delle missioni spaziali rende tutto molto più completo e interessante.
«Sì, penso sia qualcosa che ci tocca da vicino e dimostra come il modo in cui svolgiamo le missioni umane nello spazio rifletta molto il modo in cui pensiamo. Si leggono ancora titoli come: “Il ritorno dell’uomo sulla Luna”, dando per scontato che il concetto comprenda anche la donna; un modo superato di esprimersi e pensare alla figura dell’astronauta al maschile: un’eredità del passato che abbiamo bisogno di scrollarci di dosso. Però, finché continueremo a non farci caso, non sparirà. Per cui spero che queste missioni possano portare a una riflessione, anche perché le bambine che assisteranno a quel primo passo potranno identificarsi e dire: “Ehi, c’è una donna che fa l’astronauta, quindi posso farlo anch’io”. L’impatto sarà molto forte, perché dimostrerà che possiamo di nuovo compiere cose un tempo considerate impossibili, affrontando sfide ardue senza tirarci indietro davanti alle difficoltà. E che possiamo farlo insieme, come umanità. E mi piace molto che il programma Artemis sia internazionale rispetto allo statunitense Apollo, perché si tratta di un ritorno sulla Luna con un sacco di nazioni in più rispetto al passato: finora stanno collaborando nove partner internazionali, Italia inclusa».

La Stazione Spaziale Internazionale ha da poco compiuto vent’anni. Ci racconti qualcosa sulla storia di questo progetto? Dal punto di visto filosofico, che cosa significa per te sapere che da due decenni la popolazione del nostro pianeta non vive più solo sulla Terra? Che tipo di consapevolezze abbiamo raggiunto?
«La ISS è nata durante la guerra fredda in un’epoca di rivalità fra nazioni, con l’obiettivo degli Stati Uniti di dimostrare all’Unione Sovietica di essere in grado di lanciare una Stazione, ma diventando in seguito un progetto sempre più internazionale. Proposto dal presidente Reagan agli inizi degli anni Ottanta, il progetto ha rischiato diverse volte di essere cancellato perché considerato inutile e costoso, per essere infine lanciato nel 1998. Nonostante l’enorme fatica a livello politico di mandare avanti un’impresa di tale portata, siamo riusciti a realizzare un laboratorio di ricerca scientifica e a trasformarlo in un progetto diplomatico di unione tra nazioni fino a poco tempo prima rivali, che hanno collaborato per creare qualcosa di molto più grande di quanto ognuna di loro avrebbe mai potuto fare da sola. E in questi vent’anni abbiamo visto al lavoro decine di persone sulla ISS che, grazie al loro contributo, ha compiuto innumerevoli scoperte – dalle nuove tecnologie alle cure – provocando un’influenza positiva sulla nostra vita di tutti i giorni, nonostante molti lo ignorino. Dal punto di vista filosofico, invece, credo che la ISS abbia cambiato il nostro modo di pensare: con essa abbiamo lasciato la nostra culla, il nostro piccolo mondo blu; un gesto che non è soltanto un viaggio per noi, ma l’occasione che la vita ha per non restare ferma su un unico pianeta. Man mano che continueremo a fare esplorazione spaziale ci renderemo conto di quanto la nostra sia stata un’epoca incredibile, perché ha rappresentato il momento in cui la vita ha iniziato a espandersi nel Sistema solare, e che sopravviverà anche quando, tra milioni di anni, noi non ci saremo più. Mi piace pensare che facciamo parte della storia del mondo, che è molto più grande di noi. Dà un senso poetico alla nostra avventura».

SpaceX NASA astronauta
Soichi Noguchi, astronauta della JAXA (Japan Aerospace Exploration Agency) e ingegnere di volo della Expedition 64, si gode la vista della Terra dalla Cupola a sette finestre mentre la Stazione Spaziale Internazionale orbita a 400 chilometri sopra il Mar dei Caraibi. (Ph. NASA)

LGBT: chi ha voce deve parlare

Hai dichiarato di essere pansessuale: riguardo alla questione LGBT hai detto che, in questo momento storico, chi ha voce deve parlare. Che progressi stiamo facendo in fatto di inclusione e che cosa stiamo sbagliando?
«I problemi legati alle tematiche LGBT, il sessismo e il razzismo sono sistematici. Persone trans o con un orientamento sessuale diverso da ciò che è considerato socialmente desiderabile subiscono discriminazioni solo per il modo in cui è concepita la normalità. Proprio come, in quanto rumeno, io continuo a vivere sulla mia pelle episodi di razzismo. Con la fortuna, però, di essere bianco e non dover subire il trattamento che è riservato alle persone di colore. Se da un lato, però, si stanno facendo molti progressi, dall’altro si avverte un senso di fastidio nei confronti delle proteste. Ma ciò che le persone che non vivono questi problemi devono capire è che godono di privilegi che, al contrario, le altre non hanno. Quindi, chi è bianco ha il privilegio di poter uscire tranquillamente senza che qualcuno si stringa addosso la borsetta per paura di uno scippo, oppure che venga apostrofato con epiteti razzisti; allo stesso modo, un etero può passeggiare con la persona che ama senza l’angoscia che qualcuno gli fischi contro o lo minacci. Mentre chi appartiene a una coppia LGBT e si tiene mano nella mano non sa come andrà a finire. Quando dico che ci sono dei privilegi nell’appartenere a una determinata categoria, tanta gente la vive come un’accusa, mentre credo sia una delle cose che dobbiamo sconfiggere: finché non considereremo questi problemi come sistematici e parte della nostra società non potremo affrontarli e superarli».

Hai detto: «Se volete essere punk, piangete!» Manifestare i propri sentimenti è una forma di ribellione contro gli stereotipi?
«Sì, assolutamente. Sono convinto che uno dei problemi sia come viviamo gli stereotipi e abbiamo interiorizzato il modo di pensarci come maschi e femmine, presupponendo che, in quanto uomo, non devo piangere, non devo esprimere i miei sentimenti in questo modo, non devo comportarmi in quest’altro. Invece, penso che piangere sia una delle cose più ribelli che si possano fare, ed è importante ora più che mai, dato che con i social abbiamo una voce molto più potente e la possibilità di arrivare a tante più persone rispetto al passato». 

Come si risponde all’odio?
«In maniera costruttiva. L’odio fa parte del nostro lato irrazionale, quanto l’amore e gli altri sentimenti; invece di negarlo completamente dovremmo capire da cosa deriva, come per una diagnosi, e cercare di curarlo. Penso sia un campanello d’allarme che ci avverte che qualcosa non va nel nostro modo di legare nella società, per cui dovremmo cogliere questo segnale per costruire nuovi modi per dialogare e risolvere conflitti in maniera non violenta. La separazione dei poteri elaborata da Montesquieu è stata un’intuizione incredibile e tutt’ora credo sia una delle cose più belle della democrazia; in generale, idee come questa sono la prova che, se il problema è che ci odiamo per le nostre differenze, possiamo metterci al tavolo e inventare degli strumenti concettuali in grado di risolverlo, facendoci incontrare a metà strada. L’arte della diplomazia è meravigliosa: abbiamo bisogno di più persone che vedano la risoluzione di conflitti come qualcosa di artigianale, che si può inventare e costruire».

Che cos’è per te il coraggio?
«Avere speranza laddove nessuno vede un appiglio a cui aggrapparsi. Quindi, avere fiducia nel futuro è molto coraggioso, perché tante persone diranno: “Gli esseri umani non cambieranno mai”, ma io continuo a pensare che non sia troppo tardi e che possiamo farcela, e credo che il coraggio sia prima di tutto avere la speranza di poter migliorare. Ovviamente tutto questo va di pari passo con le azioni, come ha fatto Rosa Parks che, nonostante le dicessero di doversi alzare, è rimasta seduta su quel bus. Di certo lei non pensava di cambiare il mondo, ma aveva la sensazione, la speranza che quel gesto avrebbe portato a un esito positivo negli occhi di altre persone, nel far vedere che quella sarebbe dovuta essere la normalità. È ciò che spero possa succedere anche per il futuro delle prossime generazioni che combattono per un mondo migliore».

Adrian Fartade divulgatore scientifico

Si può fare!

Qual è il tuo più grande sogno e a che cosa saresti disposto a rinunciare per raggiungerlo?
«Vorrei continuare a fare questo lavoro e sarei disposto, come lo sono sempre stato, a fare qualsiasi cosa per riuscirci. Durante l’università lavoravo in un forno dalle otto di sera alle cinque di mattina, facevo il pane tutta la notte e poi andavo a lezione, mettendoci sei ore tra andata e ritorno, che io impiegavo per dormire, per poi ritornare al forno. Con che faccia potrei dire ai bambini che incontro nelle scuole: “Dovete credere nei vostri sogni, tutto è possibile”, se io per primo non avessi fatto il massimo per arrivare ai miei obiettivi? Sono felice che con me abbia funzionato, perché spero che qualcuno che si trova nelle condizioni in cui ero io possa pensare: “Ehi, allora si può fare!”. Io non avevo esempi e ho faticato moltissimo, passando notti intere a piangere pensando di aver sbagliato tutto».

Progetti futuri?
«Sto lavorando a un nuovo libro che racconterà i vari modi in cui il mondo potrebbe essere distrutto, ma in modo allegro! Un racconto molto ottimista su com’è possibile che, nonostante tutti i pericoli che ci sono là fuori, esista la via. E noi non solo sopravviviamo ancora, ma stiamo scoprendo un sacco di modi in cui potremo difenderci. È ciò che abbiamo sempre fatto nei confronti della natura: ogni volta che scoprivamo un nuovo posto sulla Terra, la natura ci presentava le difficoltà con le sue condizioni estreme, ma noi abbiamo sempre trovato il modo di cavarcela grazie alle scoperte e alla tecnologia. Noi esseri umani siamo testardi, e ogni volta che ci viene detto che qualcosa è impossibile, ci mettiamo insieme e troviamo una soluzione. Penso sia uno dei lati più belli che abbiamo: sarà un elogio alla nostra caparbietà di fronte al fatto che l’universo sta cercando continuamente di farci fuori».

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