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Ermanno Cuoghi, la leggenda dietro il sipario

C’è chi fa una carriera intensa, per certi versi immensa, senza che la massa, la gente, venga a saperlo. Come Ermanno Cuoghi, il meccanico che un certo Niki Lauda volle a tutti i costi portarsi via quando lasciò la Ferrari. Ma il suo percorso ha radici precedenti, incrociate anche con il pianeta USA, dove si è addirittura confrontato con autentiche star di Hollywood

Una vita in secondo piano, ma da protagonista. Senza mai farlo pesare. Ermanno Cuoghi da Modena è nato nel ‘35: un’età che nessuno percepisce, a partire da lui stesso. Spirito vispo e lucido, parla senza filtri, proprio come quelli che non devono chiedere. Mai. Parla di tutto e tutti con una serenità disarmante, che ti fa brindare alla vita ogni risposta a ruota libera, densa di autenticità che ti regala. Sembra fregarsene abbastanza di tutto, e temere solo… la moglie.

Insomma, per questo ometto (solo per proporzioni) dall’irresistibile accento emiliano è praticamente impossibile condensare tutta la sua storia, di oltre mezzo secolo di attività, in un’intervista, soprattutto partendo dal fondo, bello, ruvido dell’immediato dopoguerra. Ci proviamo lo stesso, sia utile sapere che su di lui è stato scritto anche un libro: Ermanno Cuoghi, il meccanico di Niki Lauda.

Ma andiamo dall’inizio, perché il minimo alto, lui, l’ha avuto sin da bambino, ci sembra di aver letto da qualche parte.

Ph. Richard Kelley Photography

Signor Ermanno, ma… è vero che a otto anni ha dovuto ripetere la terza elementare?
«Vero. Il motivo è che il figlio del mio maestro era nella mia stessa classe e con lui non c’era un rapporto troppo buono. Poi c’è stato un momento che ci siamo menati… al maestro papà non è piaciuto e, via, bocciato. Cioè, mi ha rimandato a ottobre e io non ho voluto fare l’esame. Perciò ho dovuto ripetere l’anno». (È serio quando lo riporta).

Perché ha tatuato Asterix sul braccio?
«Una storia lunga, provo a riassumerla. Durante la mia esperienza in Inghilterra ero responsabile di un garage corse auto e coordinavo uno staff di meccanici, alcuni bravi, alcuni più fannulloni, perché non volevano lavorare nei fine settimana. Un sabato, uno precettato per un lavoro la domenica si voleva rifiutare; gli dissi: se ti va bene è così altrimenti vattene e non tornare più. Tornò, ma da allora mi diedero questa nomea un po’ da burbero e non so bene perché iniziarono a chiamarmi Asterix, inteso come personaggio scontroso, schizzato. Così è diventato il mio simbolo dal 1965».

Ma è vero che, come tanti meccanici auto e moto, ha iniziato con le biciclette?
 «Vero. Ero in seconda media, la seconda lingua era il francese, e proprio non la digerivo. Allora mio padre mi ha detto: “Ok, se non vai a scuola vai a lavorare”. Così mi trovò lui un posto in una drogheria-salumeria. La domenica il negozio era aperto e la padrona mi lasciava l’ora libera, in teoria per andare a messa, mentre io… eh, niente, lì vicino c’era un meccanico ciclista e andavo sempre da lui perché ero attratto. Così mi prese come garzòn per manutenzione, pulizia e altro».

Gli esordi

E ai motori come è arrivato?
«Vicino a casa mia, a Modena, c’era Stanguellini Automobili, che era concessionario Fiat ma produceva Junior e Barchetta anche per le Mille Miglia. A un chilometro da lì c’era l’assistenza Ferrari, a un chilometro e seicento metri c’era la Maserati. Insomma, ero proprio in mezzo e sono stato contaminato da quel fuoco di passione per i motori e le auto da corsa».

Quindi primo impiego Stanguellini.
 «Sì, ma sono venuto via male. Ero all’assistenza e, facendo manutenzione a una 500, avevo rotto un regolatore della camme del bilanciere: sono stato accusato e dallo stipendio mi hanno scalato sia quel ricambio, sia una chiave del 10 che era sparita, ma io non l’avevo persa. Così me ne sono andato. Però nel frattempo ho conosciuto un pilota italoamericano… Tony Settember, che nel 1958 mi ha ingaggiato per andare in Inghilterra e insieme abbiamo costruito una barchetta con motore Maserati. Portata in Italia, corse solo una gara a Napoli nel circuito di Posillipo e la vinse. Così Tony volle portarla negli USA con l’idea di riprodurla, ma non ci riuscì».

Storia incredibile… e poi?
«Niente, nel frattempo avevo preso un autolavaggio. Ma nel ’62 Tony tornò in Italia e mi tirò in mezzo ancora nel mondo delle corse dopo che aveva rilevato una scuderia in fallimento. C’erano anche due F1 Emeryson che provammo a far correre con l’inglese Ian Burgess e lo stesso Tony, ma poi ci venne voglia di costruirne una nostra usando quella base. In realtà non avevamo grandi competenze tecniche per disegnarla; lì vicino c’era un ristorante greco, quando andavamo a cena, al tavolo, su tovaglioli o altro disegnavamo pezzi vari un po’ alla volta. Così nacque la nostra F1 con il primo collaudo nel 1963 a Silverstone il 23 dicembre».

Che memoria!
«Già, comunque dopo anche quell’avventura fallì».

Ma in USA come ci è arrivato?
«Nel 1964 il nostro pilota Burgess aveva comprato una Ferrari GTO per correre: lo sponsor avrebbe dovuto essere la BP (British Pretrolium), che poi non ha pagato, così io sono rimasto senza lavoro. Ian aveva saputo dell’arrivo di Carroll Shelby in Italia con le AC Cobra per partecipare alla Targa Florio. Me lo presentò… e da lì è iniziata la mia avventura americana. Facevo il meccanico e guidavo il camion».

Ma è vero che dietro la leggendaria Ford GT40 c’è anche il suo zampino?
«Certo. Shelby comprò da Ford Inghilterra il brevetto della GT40 e a fine ’64 abbiamo iniziato a costruire la GT40 americana. Quaranta esemplari per fare i campionati. E li abbiamo fatti fino al 1969 vincendo a raffica».

Con quali piloti?
«Jacky Ickx, Pedro Rodriguez, Brian Redman e molti altri».

E con le Porsche?
«La GT40 era sponsorizzata da Gulf. Porsche aveva smesso di correre ufficialmente così, visti i risultati del nostro team, affidarono a noi le loro auto. Ma all’epoca le Porsche erano inaffidabili e pericolose… così con Redman andammo a provare e riprovare a Zeltweg, in Austria, tre vetture: una coda lunga, una coda media e una Can-Am. Finché, con una intuizione e ispirati dalla versione più efficace, costruimmo proprio a mano la coda e immediatamente scesero due secondi al giro, mentre il pilota guadagnò il feeling e la fiducia necessaria. Nacque così la 917K, che nel ’70 e ’71 dominò in lungo e in largo nelle Endurance di tutto il mondo».

Ph. Luis Ferrara

Steve McQueen e Paul Newman

Senta… ci siamo informati prima di questa intervista e sappiamo che ha avuto a che fare con colui che è riconosciuto all’unanimità come icona di stile mondiale, sia nel senso di immagine sia come vita spericolata. Steve McQueen. Ebbene, forse lei, Ermanno, non si rende conto, ma ciò le crea intorno un alone di mito a sua volta.
«Sì, con Steve ho avuto a che e fare in occasione di qualche gara in stretta collaborazione e devo dire che non era l’attore, il divo, era uno di noi. Con lui si parlava come ora sto parlando con te. Gentilezza e semplicità indimenticabili. Poi è stato anche un gran pilota di moto, e io… che ero e sono malato di due ruote più di lui… insomma, un ricordo bellissimo».

E con Paul Newman, altro divo dei divi, ha avuto a che fare?
«Sì, anche se non direttamente. Ho solo un episodio, brutto, in mente. Ero già in Formula 1 e, in occasione di un GP in condivisione con il campionato Nascar, il paddock era un grande hangar comune: in Nascar gareggiava Newman. Avvistato in lontananza, essendo per tutti noi un personaggio famoso, gli sono andato incontro per chiedergli un autografo. Insomma, non mi ha neanche guardato in faccia e se ne è andato via. Boh, ma va’ a caghèr!».

Ma i tempi Ferrari in F1?
«Io, a dire il vero, era da anni che avevo fatto più volte domanda in Ferrari. Era una mia ambizione. Ma non mi avevano mai risposto… forse avevo il prete sbagliato (modo di dire modenese, ndr) e quindi avevo messo giù l’idea. Nel ’71 vivevo in Inghilterra, ero là come un re, con la mia famiglia, casa, giardino, e tutto quanto l’occorrente per stare bene. Mi arrivò un telegramma che diceva di presentarmi in Ferrari per un colloquio a giugno. Risposi che sarei andato, ma a novembre: mi ingaggiarono per gli Sport Prototipi. Poi nel ’73 mi fecero fare le ultime due gare in F1 con Jacky Ickx. All’ingaggio di Lauda, nel ’74, mi misero con lui perché in Ferrari ero fra i pochi meccanici che parlavano l’inglese. Credo fu quello il motivo…».

Come è stato con lui?
«Quando arrivò in Ferrari l’uomo di punta era Clay Regazzoni, mentre lui era una giovane promessa. Ha impiegato poco a diventare il numero uno».

Però, quando Lauda se ne andò dalla Ferrari da iridato, a fine ’77, le chiese di andare con lui in Brabham.
«Andai volentieri sia per il bel rapporto umano e professionale nato fra noi due, sia perché avevo visto che in Ferrari non avevano trattato molto bene i meccanici di Regazzoni dopo la sua uscita, quindi non mi sono fidato molto… però nel 1980 il direttore sportivo Piccinini mi richiamò in Ferrari ma io avevo preso impegno con Niki e volevo rispettarlo. Comunque ai tempi di Brabham io ero stipendiato da Alfa Romeo e avevo le spalle coperte così, quando Lauda ritornò a correre, dopo una pausa di due anni, non me la sono sentita di seguirlo pure in McLaren, anche perché oramai ero tornato in Italia con la famiglia».

Ph. Carlos Ghys

L’amicizia con Niki Lauda

Il rapporto con Niki?
 «Amicizia e fiducia vera e propria. Io sono andato a casa sua e lui è venuto a casa mia».

Lui era ritenuto uno dei collaudatori più fini della storia F1.
«Ha sempre guidato in un modo che qualsiasi modifica la sentiva. Una volta dal sabato alla domenica cambiarono le condizioni. L’ingegner Forghieri aveva fatto una piccola modifica nell’alettone posteriore, roba di due millimetri… Ebbene, nel warm-up pre gara è uscito e ci ha chiesto cosa avessimo fatto alla macchina. E si arrabbiò con Forghieri». 

Quale pilota di oggi le ricorda Niki?
«Direi nessuno».

L’immagine che il pubblico aveva di Lauda era di un pilota freddo e calcolatore. Ma lui come persona era così o aveva delle insicurezze come tutti?
«No, insicurezze non ne aveva in nessun campo. Ok, aveva una mentalità piuttosto rigida, austriaca, ma è anche vero che allora, come ora, c’erano giornalisti e giornalisti. Tante volte alcuni, spesso italiani, gli facevano delle domande un po’ sciocche o provocatorie e allora lui li disertava, preferiva i giornalisti tedeschi, inglesi. Comunque di testa era fortissimo, per quello che appariva a me». 

Nessuna debolezza, dunque, per Lauda uomo?
«Beh, no, tranne un particolare. Gli piaceva la gnocca anche a lui…». Ride.

Ah. Ma lui non aveva l’immagine del donnaiolo.
«No, no, infatti. All’esterno… ma ti dico un aneddoto: tra il GP USA e quello del Canada c’erano un po’ di giorni in cui i piloti non tornavano in Europa. Durante quel periodo solitamente i meccanici si trasferivano subito, mentre i piloti rimanevano in USA a New York qualche giorno a divertirsi… Bene, senti qua: in Canada arrivò Bernie Ecclestone con un affare così in ceramica… praticamente era un fallo (rimane serio). Mi disse: “Lo fai trovare a Niki dove c’è il volante alle prime prove? Lo merita perché lo abbiamo eletto Mister Uccello, visto che negli Stati Uniti ha fornito ottime prestazioni”. Nessuno sa, anzi, solo loro sanno a cosa si riferisse quell’omaggio. A proposito, anche Ecclestone è una persona eccezionale, a dispetto di come appare ai mass media».

Ma dai…
«Sì, sì, sempre in Canada c’era una ragazza che mi piaceva che voleva un pass… e io l’ho chiesto a Bernie per cercare di conquistarla. E lui mi rispose, come sempre, che per principio queste cose non le voleva fare. Allora io, mentre era disattento e stava parlando con qualcuno, gli ho sfilato il suo tagliando la corda con un tronchesino. Appena se n’è accorto mi ha rincorso per tutto il paddock mentre io scappavo. Sembravamo due scimpanzé al circo…».

Cosa ha da dire sul film Rush?
«Sono stato invitato alla prima a Maranello. Alla fine della proiezione un giornalista di La Repubblica mi ha chiesto un parere: diciamo che la base indicativamente è reale, ma tante cose, troppe, sono eccessivamente amplificate e romanzate. Tipo, anche James (Hunt, ndr) era sì un bel puttaniere, gli piaceva divertirsi e sbevacchiare, ma non così come è stato descritto. E Niki non era così serioso e arrabbiato come è stato dipinto».

Ma Niki e James erano davvero così nemici?
«No, fidati. Erano amici. E si rispettavano molto, nonostante uno stile di vita differente».

Ph Luis Ferrara

La Formula 1 oggi

La F1 di oggi.
«La seguo o, quando non posso vedere le gare, me le faccio raccontare da mia sorella, di cui mi fido».

Ma perché oggi i piloti arrivano in F1 giovanissimi e vanno subito forte, rispetto a una volta?
«Ai tempi iniziavano a 15-16 anni, adesso a 4, così arrivano che sono già navigati ed esperti. E poi l’elettronica perdona e facilita tutto. Tipo video games».

Ma lei, in moto, ci va ancora?
«Sì, quando mia moglie me lo permette… – si blocca, sogghigna, – oh non scriverlo questo eh, altrimenti mi mena».

Che moto ha adesso?
«Mi è rimasta una Triumph Bonneville T100 di circa dieci anni, quindi di generazione recente. Poi ho un Gilera Saturno e ho ristrutturato un Giubileo. Sono stato anche in vacanza in Moldavia con mia moglie e ho trovato una Ural sidecar di 18 anni: l’ho comprata, così posso andare in giro con lei».

Cuoghi, una vita nelle auto. Ma, detto tra noi: da guidare danno più soddisfazione le due o le quattro ruote?
«Per me le moto, non ho dubbi».

Se avesse potuto fare il pilota?
«Mi sarebbe piaciuto farlo con le moto, mi dà più soddisfazione. Sulla moto sei te. La moto è perfetta». 

Ma è vero che ai tempi delle gare Prototipi con le Porsche, vicino all’autodromo di Le Mans c’era un garage officina da cui venivano portate le auto da corsa direttamente in circuito su strada, facendo anche rodaggio dei freni…
«Assolutamente vero. Però non si andava forte eh… e poi lo facevamo anche in Ferrari, ai tempi di Niki e Clay. Le ho guidate anche io… ma non dirlo in giro eh. Una volta dissi a Niki: senti, ho provato la tua macchina e mi sembra che tiri un po’ di là. E lui, glaciale e implacabile, come sempre: “Ma cosa cavolo dici, Ermanno?”». (Questo lo ha detto in dialetto, ma non riusciamo a scriverlo).

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