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MotoGP, il coraggio dei vent’anni

Il contatto tra Marquez e Pedrosa infiamma il web, ne parlano tutti e si torna a parlare di "azzardo" e "imprudenza". Anche Max Temporali dice la sua

Bravi coloro che domenica hanno avuto il colpo d’occhio del prof, come il puntuale Guido Meda, comprendendo che si trattava solo di un contatto leggero fra Marquez e Pedrosa, al limite dell’impercettibilità dell’occhio umano. Eppure tanto è bastato per riaprire il capitolo dedicato all’“imprudenza” dei piloti. Ancora una volta il protagonista è Marquez.

Se da una parte gridiamo “evviva Marc”, con quella guida spericolata e spregiudicata da cintura nera di MotoGP, capace ad ogni gara di offrire un titolo da copertina, dall’altra occorre quella razionalità che possiede solo chi non dimentica il valore umano. Perché in quel mondo che ammiriamo dallo schermo della TV c’è davvero chi ha delle responsabilità nei confronti dei giovani come Marquez e di chi è in pista insieme a lui.

I nostri eroi non sono cartoni animati in 3D, ma esseri umani poco più che adolescenti. Marc guida sempre al 110%, dal venerdì alla domenica. E’ istintivo più di altri, un’attaccante puro, che vive le gare alla giornata, rinunciando alle strategie. Per lui guidare la Honda è un bel gioco, un piacere, alimentato da rischi che gli sorridono e spaventi che lo divertono, al pari di quei ventenni della strada che trovano nella spericolatezza del parkour, limiti ed emozioni.

Emilio Alzamora, il manager di Marquez, è la persona perfetta per la crescita di Marc. Un ex pilota, forte ma “prudente”, capace di vincere il titolo mondiale della 125 più con la testa che con la forza (quell’anno non vinse una gara, ndr). Lavora da tempo per contenere gli eccessi del suo pilota, che ha forse il difetto di avere troppo coraggio e poca paura. Ai tempi di 125 e Moto2, Alzamora si appostava a tempo pieno al muretto dei box, dalle prove alla gara, spronando alla calma il suo pilota, come dire “non rischiamo se non serve”. Marc è un piccolo disubbidiente. Se domenica fosse stato Lorenzo ad appoggiarsi alla moto di Pedrosa, procurando quel danno irreparabile al traction control della Honda col gomito sinistro, immaginiamo che sarebbe già stato classificato come un normale episodio di gara. Perché mamma sfortuna è imprevedibile e questo è stato sicuramente uno caso sfortunato, come spesso accade quando c’è di mezzo il povero Dani.

Ma per Marc è diverso: il discorso va esaminato nel suo atteggiamento generale di pilota, quindi nella pluralità dei casi in cui è sorto il sospetto di un comportamento sopra le righe. Guida come chi intende il motociclismo uno sport pericoloso, come chi non possiede completamente né misura né paure, come un cucciolo di pit bull lasciato libero: un giocherellone, divertente nella sua aggressività di cucciolo, ma col rischio che ti massacri il divano di casa se lo lasci solo… I piloti di moto imparano in carriera a dosare la quantità di rischio facendo distinzione fra quando serve giocarsi il jolly, rischiando la caduta, e quando non serve. Di solito più ti scotti le chiappe, strisciandole sull’asfalto, meno fai lo spiritoso.

L’indimenticato Marco Simoncelli pagò per quell’atteggiamento aggressivo nella sua guida, diventando per gli spagnoli “l’omicida della MotoGP”. Anche lui giovane, un po’ acerbo, ma generoso quanto Marquez. Tant’è che piaceva, piace e piacerà sempre anche per i ricordi lasciati dalle sue gare. Il grande campione deve però sapere quando moderarsi.

Ricordiamo a Jerez gli innumerevoli “lunghi” di Marc in staccata, che finivano per sfiorare la Yamaha di Lorenzo sempre nel lato esterno rispetto al raggio della curva. Un po’ come domenica con Pedrosa. Allungare la frenata per rimanere all’esterno dell’avversario davvero non porta a niente, ma dà l’idea di un errore di valutazione della staccata o del non saper controllare l’avversario da dietro. Perché il fatto anomalo è che Marc sbaglia di più quando insegue gli avversari che quando guida la corsa. Nella bacheca personale dello spagnolo troviamo anche pericolosissime cadute, come quella a 300 all’ora al Mugello, in un punto allucinante e secondo una dinamica che non trova pari nella storia del circuito italiano.

Oppure la scivolata a Silverstone, nel warm up, mentre sventolavano le bandiere gialle (avrebbe dovuto rallentare, ndr): rischiò di finire contro la Yamaha di Crutchlow parcheggiata nella terra e la sua Honda per poco non centrò i commissari presenti sul luogo dell’incidente per soccorrere l’inglese. Sono solo gli episodi più recenti, dove la fortuna ha guardato negli occhi Marc e coloro che insieme a lui sono protagonisti di queste vicende. Domenica Dani Pedrosa ha rischiato più di quello che immaginiamo, perché il suo non era un pericolo “programmato”. Oggi i piloti della MotoGP danno il gas in uscita di curva fidandosi dell’elettronica. Pensate di dare una bella manata decisa all’acceleratore, in piega, con 250 cv pieni: è un attimo saltare per aria senza preavviso, il modo migliore per farsi male e rompersi le ossa.

Peggio ancora è rimanere spalmati in mezzo all’asfalto, con le altre moto che ti sfilano pericolosamente a destra e a sinistra. A Dani, in questo scenario incredibile con decollo a 130 km/h, poteva andare molto peggio. Il piccolo pit bull della MotoGP è giusto che giochi, che si diverta e che ci appassioni come pochi sanno fare. Crediamo nella sua straordinaria bravura, nel suo equilibrio, abbiamo fiducia nelle sue capacità e gli vogliamo bene come a tutti gli altri piloti. Ed è per tutte queste ragioni che, nell’attesa che maturino i suoi 20 anni, bisognerebbe insegnargli ad avere più rispetto per la sua pelle e per quella dei suoi avversari. Sono sicuro che vincerebbe ugualmente e che ci divertiremmo come oggi.

 

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