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Father and Son, storia di sabbia

Aldo e Andy Winkler sono padre e figlio con la moto nel cuore. Avevano un sogno con i colori della sabbia e i profumi del deserto: correre insieme la Dakar. Un giorno il sogno si è avverato.

Se fra un padre e un figlio c’è sintonia, nulla è più bello di condividere passioni e interessi comuni. Aldo e Andy sono così, il loro rapporto trascende quello puramente di sangue e si amplia nella sfera dell’amicizia. Al punto che il loro amore per i viaggi, la natura e la motocicletta li ha portati a intraprendere un’avventura speciale.

Come è nata l’idea di correre la Dakar insieme?

ALDO – Due anni fa, durante il lockdown eravamo anche noi chiusi in casa e come tanti altri ho avuto tempo per fare alcune di quelle cose che avevo lasciato in sospeso. Una in particolare, erano anni che continuavo a rimandarla. Ho deciso di mettere in ordine tutte le foto e i video delle mie Dakar… Senza lockdown non lo avrei mai fatto, un lavoro immenso! Ho fatto le scansioni di tutto il materiale e ne ho ricavato sette fotolibri. Una per ogni Dakar. Anche Andrea ha preso parte a questa operazione certosina: la sera ci sedevamo uno accanto all’altro a guardare e scegliere le foto.

ANDY – La sera mi mettevo lì con lui e dicevo… Sarebbe bello vedere questi posti. E lui rispondeva: sarebbe bello portarti…

ALDO – Io ormai sono un po’ un vecchiotto ma lui è molto atletico. Dopo il Supercross ha iniziato a lavorare, poi si è appassionato al volo, ha preso il brevetto di parapendio, non sta mai fermo…
Ma grazie a tutte quelle foto e i video gli è venuta la febbre d’Africa.
Così un giorno è venuto da me e mi ha detto “Non possiamo mica aspettare ancora!”. Io era dal ’98 che non facevo la Dakar, l’ultima gara in sella era stata nel 2005, perché poi ho cominciato a seguire lui che faceva Motocross e dunque ho smesso. Allora abbiamo deciso di metterci in sella entrambi e cominciare ad allenarci per fare la Dakar insieme.

Fare una cosa simile non è da tutti. Bisogna avere un’esperienza non indifferente

ALDO – Vero. La mia prima gara in assoluto, nel deserto, è stato il Rally dei Faraoni, nel lontano 1983; la prima Dakar l’ho corsa poco dopo, nel 1986. poi ho preso parte a quelle dell’87, ’88, ’89, ’91, ’96 e ’98. Ho saltato le gare in Sudamerica, mi sarebbe piaciuto correre anche quelle e se potessi tornare indietro, magari…

ANDY – Io ho cominciato con i Rally correndo le gare di avvicinamento alla Dakar. Arrivo dal Supercross. Sono stato 4 anni in America, poi varie gare internazionali in Francia, Germania, però sempre in pista. Con la Dakar ci sono cresciuto: ne sento parlare da quando sono piccolo. A furia di ascoltare storie e aneddoti era come se l’avessi già fatta ancora prima di correrla. Poi, una volta arrivato là, ho scoperto che le cose erano veramente così, come me le raccontava mio padre.
Per esempio la storia della caduta di Ciro de Petri. L’avrò sentita duecento volte, parla di questi cespuglietti in mezzo al deserto. Alla fine mi ha salvato… In Marocco c’era un fiume secco che non si vedeva bene, però mi sono ricordato questa storia e quando ho visto i famosi cespuglietti ho drizzato le antenne e ho evitato il pericolo..
L’esperienza di mio papà è servita tantissimo. Ci siamo portati dietro qualunque pezzo di ricambio per ricostruire una moto da zero… Una volta si faceva così, forse oggi è superfluo, forse l’abbiamo finita anche grazie a questo.
La mia ambizione per la Dakar non era la gara in sé, ma farla con lui, con mio padre.

Viaggio, avventura, gara. Come si vive oggi la Dakar

ALDO – È una competizione vissuta con i ritmi dei tempi moderni. Tutto stressato, esasperato, per certe cose anche più difficile. Il lato positivo è che tutto è più sicuro.
Per contro manca un po’ il romanticismo, l’avventura, l’esplorazione, il passare in luoghi completamente sconosciuti. La prima volta che ho partecipato, nell’86, non si conosceva quasi nulla. Oggi con Internet sai già tutto, navighi ovunque con Google Maps. E non è la stessa cosa… se anche decidi di vivere come un primitivo, basta un click sul web per esplorare il mondo.
Anche dal punto di vista umano la Dakar è cambiata. Una volta si facevano meno trasferimenti ma si parlava di più, adesso anche la vita nel campo è più frenetica. Le tempistiche sono tirate e con meno possibilità di costruire relazioni con gli altri. Il campo è più di un bivacco, è diventata una città con le sue strade. I piloti una volta erano anche singoli avventurieri. Oggi devi fare parte di un team, c’è la Federazione e tu sei un atleta.

ANDY – I paesaggi sono bellissimi, spettacolari. Però dovevo guardare il roadbook ogni 10 secondi e pensavo che in questi posti ci vorresti tornare, perché quando corri li vedi ma non li vivi.

Che atmosfera avete respirato?

ALDO – Il primo giorno c’è stato subito un attentato… Quindi il clima non era troppo sereno, c’era sempre l’esercito, tantissima polizia, i bivacchi erano sicuri, chiusi. Infatti un po’ per questo, un po’ per il Covid mi è spiaciuto non essere riuscito a respirare la cultura locale. Eravamo in una specie di bolla, isolati dentro la gara. Una delle cose che più mi aveva motivato ad andare alla Dakar erano stati i racconti di mio padre sulla cultura dei posti. I Tuareg, il deserto… Invece, quest’anno abbiamo vissuto la gara ma non la civiltà di quelle terre. Da quel poco che siamo riusciti a toccare con mano, la popolazione è amichevole, cordiale e molto accogliente.

Avete mai avuto paura?

ALDO – Sì, subito il primo giorno. Tutti i piloti si sono persi per problemi con il roadbook. E la traccia che c’era nella sabbia, un filo, è sparita con il passare delle macchine. Noi ci siamo finiti dietro, a quel punto ho capito dove era la strada ma Andy non c’era più. Era scivolato… Sono tornato indietro per cercarlo. Quando ho visto un pilota vestito di bianco l’ho inseguito, ma non era lui. In un attimo ho fatto 10 km e a quel punto è matematico perdersi. Questa la mia paura: perderci tra noi. Si affollano i pensieri… Sarà caduto? si sarà fatto male? A quel punto tutti e due abbiamo pensato che l’una cosa da fare era puntare all’arrivo.

ANDY – A un certo punto mi sono trovato solo, nel deserto, senza traccia, con il sole che andava giù, in più ero preoccupato per lui, allora sono tornato a manetta sulle mie tracce. Ho puntato una traiettoria sperando fosse quella giusta per raggiungere l’arrivo e ritrovarlo lì. Infatti poi è arrivato. A quel punto abbiamo capito che correre separati era peggio. Quei venti minuti passati ad aspettarlo mi è sembrato di morire…

ALDO – Quando ci siamo persi e poi ho capito dove andare ero nel dubbio se puntare all’arrivo o tornare indietro a cercarlo. Intanto l’ansia saliva… Sono anche caduto e mi sono fatto male. Mi sono rotto l’acromion e ho ancora dolore alla spalla. È stato un giorno terribile.

Cosa insegna la Dakar?

 

ALDO – Lo so che piò sembrare una frase fatta, ma la Dakar è davvero una lezione di vita. Hai un obiettivo: devi arrivare in fondo e fai tutto in funzione di quello. Io l’ho vissuta con un po’ di ansia, lui forse un po’ meglio. Come se fossimo invertiti: io sembravo il neofita e lui l’esperto. Lui è bravissimo a navigare e va fortissimo in moto, molto più veloce di me: aveva il tempo di navigare e consultare il roadbook. Io invece mi perdevo più facilmente e coi tempi così stretti non potevo perdere tempo sulle mappe.

ANDY – Lui con la sua esperienza decideva la strategia e tutta la logistica, io invece mi occupavo della navigazione e stavo davanti, così che a lui restasse il piacere di andare in moto. E poi se si insabbiava potevo aiutarlo a uscirne. Da soli è faticoso…

ALDO – Già… In salita o nel sabbione molle o in una buca, ti insabbi di sicuro una volta, due… La moto è grossa e pesante e quando va giù è una bella fatica. Poi incominci a essere stanco, sei meno lucido e finisce che ti insabbi ancora di più…

ANDY – Quando si insabbiava ci pensavo io a tirargli fuori la moto, così poteva ripartire un pochino più fresco…

ALDO – C’erano dei punti tostissimi: situazioni quasi da trial con pietre e sabbia, mulattiere con salite a roccioni. Discese tremende dove o scendi e accompagni la moto oppure la fai a manetta. Non cè via di mezzo. In sella a questi bestioni non è semplice… Se non ci fosse stato lui, io ero ancora lì. Ci voleva tanta tecnica ma altrettanta forza. Forse anche per colpa della spalla rotta,
facevo molta fatica…

L’emozione più grande

ANDY – L’arrivo. L’arrivo di ogni tappa è una vittoria. Ci battevamo il cinque.

ALDO – Il momento più emozionante è stato anche il momento più difficile, ossia quando ci siamo dovuti separare. Avevo un bel livido dopo la caduta. Ma di notte quando mi sono alzato mi sono accorto che non avevo più il senso dell’equilibrio. Non riuscivo a stare dritto. Non ho mai sofferto di labirintite, quindi era una sensazione mai provata. Non stavo in piedi. Ho bevuto un tè caldo e sono tornato a coricarmi, ma una volta a letto la sensazione di nausea e vertigini è stata fortissima. Ho concentrato tutte le energie per alzarmi e andare a vomitare fuori dalla tenda. Non si è capito bene cosa mi sia successo, forse una contrattura cervicale, mi è durata tre giorni…
La mattina poi non sono riuscito a partire per la tappa. Poi mi sono ripreso e ho corso l’ultima (lo permette il regolamento).

ANDY – Ci aspettava la tappa più difficile di tutta la Dakar. Lui non era in forma. Era troppo rischioso mettersi in sella in quelle condizioni. Sono partito da solo e per me è stato veramente brutto. Non che io fossi in formissima… Infatti il giorno dopo è toccato a me stare male…

ALDO – Dal punto di vista delle emozioni è stato molto forte. Tutte le Dakar che ho fatto sono state, ciascuna a suo modo, uniche ed emozionanti. La prima, nell’86, perché vai in un posto e non sai cosa ti aspetta, infatti non sono riuscito a finirla… Adesso che ci penso, avevo 29 anni, la stessa età esatta di Andy! Non dimenticherò mai la seconda, nell’87, quando sono riuscito a tagliare l’arrivo. Quest’ultima poi, la motivazione e lo stimolo di farla con lui… Molti mi hanno criticato. Ho dovuto mettermi davvero in gioco.

Padre e figlio, generazioni distanti. Siete uniti da un legame molto forte

ANDY – Padre e figlio, sì, ma soprattutto amici. Io con lui faccio le stesse cose che faccio con i miei amici. Credo che se avesse qualche anno in meno sarebbe uno di loro… Abbiamo sempre condiviso tantissime cose, in tutto il mio percorso nel Motocross, è sempre stato al mio fianco. Quando i miei amici andavano in discoteca io andavo con lui a fare le gare in Francia. Noi due sul furgone, con le moto dietro… Vivevamo le nostre avventure.

ALDO – Io ho i miei limiti e lui tantissime energie, ma il fatto di fare insieme delle cose con passione aiuta tanto. La qualità del rapporto è data dalla trasparenza e anche dall’amicizia.
Molti credono invece che un genitore debba essere molto più geniore che amico e questo è un tranello in cui non bisognerebbe cascare. Alla fine siamo tutti persone, esseri umani con le nostre necessità.

Dopo la Dakar il vostro rapporto è cambiato?

ANDY – Condividere delle situazioni difficili, caratterizzate anche da momenti di sofferenza (perché lì soffri, anche…), rafforza i rapporti. Lui me lo ha sempre detto che alla Dakar si è fatto gli amici più grandi. Farla tra noi due lo è stato ancora di più. Questa esperienza ci ha unito tantissimo.

ALDO – A me già manca. Ho nostalgia di quando eravamo lì insieme. Soffrivamo un bel po’ ma preferivo quella vita sempre insieme a questa dove siamo separati.

La Dakar alza parecchio l’asticella: che ne è, dopo, della sete di avventura?

ALDO – Quello che posso dire è che il mio fisico ora non tiene più una gara così lunga e difficile. L’ho patita un po’, sia per l’ematoma alla spalla sie per il logoramento delle mani. Io non sono un
professionista. Lavoro tutto il giorno in ufficio, non faccio una vita molto sportiva. Se fossi in pensione sì, mi ci potrei dedicare, mi restano delle ambizioni…

Nessun desiderio di rivincita?

ALDO – No. Arrivare sono arrivato… La caduta non è stata colpa mia; ho preso una botta per colpa di altri… Una situazione che non è figlia di un mio errore, qundi non ho la delusione di non aver finito qalcosa. Però se dovessi dire che faccio qualcosa per me, se dovessi rifarla non mi stimolerebbe più. Farei invece l’Ecorace, in un posto diverso, in Africa. A causa del Covid non siamo riusciti ad andare in Mongolia: ecco, se rifacessero la gara lì, mi piacerebbe andarci… Comunque a me non interessa fare una gara, io voglio vivere un’esperienza.

ANDY – Condividere quei luoghi è sempre stato il nostro sogno. L’altro giorno sono andato a fare un giro in moto in Liguria e ho pensato immediatamente a come sarebbe stato bello farglielo vedere. Natura, deserti e moto ci uniscono e sarà sempre così. Quando vedo una cosa bella penso a questo… Sono fatto così, quando vivo una bella esperienza ho bisogno di condividerla con le persone cui voglio bene. Tengo anche un diario (sul telefono) dove annoto le avventure e i momenti più belli per condividerli con mia mamma e con mia sorella…

Intervista di Martina Folco Zambelli

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