Quel giorno, lui c'era. Lo chiamavano il fantino, ma seppe diventare Ercole e Prometeo tutto insieme. In pochi secondi scrisse una storia che, a distanza di 37 anni, tutti ricordano e molti stanno vedendo sul grande schermo, grazie al progetto hollywoodiano (mai il termine è stato più consono) di un cineasta pluripremiato. “Lui” è Arturo Merzario, anzi – per recitare quanto venne trascritto l'11 marzo 1943 all'anagrafe di Civenna – “Arturio Francesco Merzario”. Una svista che mise una “i” in più, seconda solo al cappello da cowboy che ne ha accompagnato l'intera carriera di pari passo all'indolente Marlborina, sempre storta e penzula dalle labbra a fessura.
Un po' bullo, di certo sbruffone, sicuro di sé e reticente allo studio: il piccolo Arturio, tanto nell'età quanto nella statura, scopre ben presto di essere maledettamente veloce su qualsiasi mezzo, dalla bici (Civenna è attaccata a Magreglio, su quel Ghisallo tanto caro allo sport a pedale) alla Maserati di famiglia – mica se la passava male, la famiglia Merzario! – fino al Demm o a qualsiasi altro mezzo a motore. Quel primo agosto del 1976, Merzario c'era, per fortuna di Niki Lauda: c'era eccome, visto che fu proprio lui a estrarlo dalle fiamme. Secondo Ron Howard, per dirla tutta, non tanto: non che il regista statunitense premio Oscar nel 2002 non abbia studiato la storia – la ricostruzione di “Rush” soddisfa i palati più fini – semplicemente l'ha romanzata a uso e consumo del botteghino. Dimenticandosi del fantino che, di fronte al fuoco, seppe essere gladiatore.
Ecco quindi che a salvare lo svenuto austriaco, in Rush, intervengono un inglese, un americano e un tedesco. I loro nomi, prima confinati alla cerchia degli appassionati di Formula 1, sono oggi celebrati in Dolby Surround: Guy Edwards, Brett Lunger e Harald Ertl. Teutonici e anglosassoni, stereotipo del coraggio e del buono che interviene a salvaguardare l'eroe in difficoltà (a vedere il viso di Lauda, viene da pensare “mica tanto lieve”). Poi c'è l'Arturo, con tanto di articolo davanti al nome: piccolino, minuto e – per dirla tutta – con una leggerissima acredine verso il predestinato ferrarista.
Il tutto risale al 1971: Merzario corre nella Sport Prototipi su un'Abarth ufficiale. Si presenta a Salisburgo, ultima tappa dell'europeo, con un unico imperativo: vincere. Sulla sua strada trova un ragazzetto implume di 22 anni, tal Andreas Nikolaus Lauda (così recita l'anagrafe, senza errori od omissioni), su una Chevron che sembra un missile: Merzario gli tiene la scia, salvo poi staccarsi inesorabilmente. All'arrivo, non è che se la prenda poco: calci all'auto (cui seguirà un monumentale cazziatone di Karl Abarth) e il non ancora Niki sollevato di peso – con un particolare: Arturo pesa sì e no 55 chili, Niki una settantina – e apostrofato con un “Mi hai fatto perdere il campionato!”. L'austriaco prende l'ascensore per il piano terra, subito dopo avere farfugliato: “Io pagato per correre, e correre per vincere!”. Così, almeno, racconta a posteriori Merzario, col cappello da cowboy in testa a evocare distese e praterie sterminate, e il passaporto che invece parla di un dedalo di strade anguste, quelle che compongono quell'enclave di mondo chiamato Triangolo Lariano.
Come se non bastasse, due anni dopo Arturo tocca l'apice per qualsiasi pilota, poggiando le terga su una Ferrari di Formula 1. Campionato del Mondo 1973, quello vinto da Stewart per la terza volta. Il compagno di squadra è Jacky Ickx, veloce e scaltro, soprannominato Pierino la peste per la sua imprevedibilità. C'è un solo problemino: la 312 B3 non va neanche a spingerla, roba che la 642 toccata in sorte a Prost nel '91 e definita dal Professore “un camion” giusto prima di essere licenziato in tronco per lesa maestà sarebbe sembrata una libellula.
Due quarti posti, una serie infinita di problemi e la letterina di coatto addio alla Rossa aspettano il povero Merzario, destinato a continuare la carriera in team minori e a recitare il canto del cigno diventando costruttore contro ogni logica. Per il 1974 arriva a Maranello un cavallo di ritorno, Clay Regazzoni, amato dal pubblico e dallo staff tecnico: come compagno di squadra, manco a dirlo, consiglia un giovane talentino, giustappunto Niki Lauda. Come siano andate le cose, è la Storia a dirlo: Regazzoni si gioca il Mondiale con Fittipaldi fino all'ultima gara; l'anno dopo, l'ingegner Forghieri si inventa il cambio in posizione trasversale e la B3 diventa 312 T. Vale a dire, una monoposto in grado di vincere i Mondiali nel '75, '77 e '79. I primi due con il solito austriaco, l'ultimo con Scheckter, proprio nell'anno in cui Arturo riesce a qualificare la propria Merzario due volte su quindici gare. Visto che la sfiga tende a vederci benissimo proprio quando non dovrebbe, il comasco salta Montecarlo per infortunio: si rompe una mano nella propria officina di Carate Brianza e dice addio alla possibilità di ben figurare su un tracciato dove il manico meglio sopperisce alle carenze tecniche del mezzo, finito in mano al povero Brancatelli che – al debutto – si becca quattro secondi nelle prequalifiche e torna mestamente a casa.
Meglio tornare a quell'1 agosto 1976, secondo giro del Gran Premio di Germania: Lauda ha già sbandato nella curva sinistrorsa prima di Bergwerk, la benzina lo ha già reso una torcia umana, e l'austriaco è intrappolato dalle cinture di sicurezza, tizzone cosciente in una bara con il numero 1 dipinto dietro al rollbar. La Hesketh di Edwards lo ha già evitato, quella di Ertl e la Surtees di Lunger no. Tocca ad Arturo arrivare sul posto: abbandona la propria Wolf Williams (già: il canadese che poi avrebbe dato filo da torcere al mondo nel 1977 con una propria monoposto, quell'anno faceva il finanziatore del team del povero Frank, con risultati non proprio trascendentali) e si improvvisa eroe. Senza copione, senza pensarci, per una volta senza cappello e Marlborina, senza nulla. E senza che Ron Howard lo sappia, visto che in Rush gli dedica sì e no mezza inquadratura.
“Vidi l’impatto tra una vettura e quella che mi parve subito una Ferrari in fiamme. Bloccai, scesi, e cercai di farmi largo tra le fiamme. Il tedesco Ertl, con un estintore, mi creava il corridoio. Arrivai tre volte al corpo di Lauda. Per due volte lui si dimenava e non riuscii a slacciare le cinture. E ogni volta tornavo indietro, per non ustionarmi anche io”. Così Arturo su un quotidiano locale qualche tempo fa. “La terza, Lauda svenne e io riuscii nell’intento. Ma ancora oggi mi domando come abbia fatto io, con il mio fisico mingherlino, a tirar fuori un peso di 70 kg. come fosse un pacchetto di sigarette”. Palle, Arturo, si chiamano palle (e figuriamoci se non avresti tirato in ballo le sigarette). Ma anche un po' di pazzia, visto che nel frattempo Lunger ti stava trattenendo “per paura che saltasse tutto in aria”. Anche qui serve una postilla: prima di fare il pilota, Brett Lunger era un marine. E in Vietnam c'era andato sul serio, salvando la pelle al figlio di uno dei boss della Du Pont, che poi lo avrebbe supportato come segno di riconoscenza nel prosieguo della carriera. Quella volta, sulla Nordschleife, un piccolo cowboy di Civenna era stato più eroico di un eroe di guerra. Uno che il Vietnam se l'era fatto in prima linea, non propriamente dietro una scrivania.
In un film che è un western con punte di epica più che un polpettone sportivo (e meno male!) il regista si è dimenticato di un pistolero senza pistola e senza Marlborina che ancora oggi, a 70 primavere, continua a correre. Non si parla di footing, tutt'altro: di auto, di cosa sennò? Di uno che nel 2000 è stato festeggiato per le 2.000 gare disputate e che da allora “non le ho contate più”. Ma anche di un uomo che sul viso ha più rughe delle curve dell'Inferno Verde, un po' falco e molto istrione, che sul set c'è finito ben prima di Niki: “Le 24 Ore di Le Mans”, 1971, interpretato da Steve McQueen. La macchina che si vede all'inizio, la numero 8, era proprio quella di Arturo: il film miscelò immagini di repertorio con le scene girate sul posto. Per una volta, senza coinvolgere un austriaco dall'altisonante nome, che con Merzario si sdebitò con un Rolex, regalato nel 1977. Le versioni ufficiali parlano di un Niki che se lo sfila dal polso e dice solo due parole: “Grazie, Arturo”.
Quella reale è dello stesso Merzario: “Ero a Salisburgo per una gara con l’Alfa. Lui scese da casa sua, che era proprio sopra il circuito, e mi portò quel Rolex… Ma io sapevo che era un regalo riciclato, della Mariella, la sua prima fidanzata e dissi a Niki: 'L’orologio te lo metti nel…'. Lo prese in consegna l’ingegner Chiti che poi me lo diede. Ma io non lo indossai mai. Non potevo mettere nemmeno il mio di Rolex o altri orologi perché tutti mi dicevano. 'Ah, ecco l’orologio di Lauda, che bello!'”. Visto l'antefatto, c'era da dubitarne?