“Mamma, butta la pasta”. Sorvolando sul fatto che questo non sia il miglior attacco per un pezzo giornalistico che un onesto operatore della tastiera possa proporre, è stato – diciamo dai venti ai quindici anni fa – un ottimo modo per prendere in giro (o magari, col senno di poi, invidiare) chi usava un aggeggio con tanto di antenna estensibile per comunicare in mobilità. Che la pasta in questione fosse al dente o scotta non è oggetto di discussione: il telefono cellulare era già diffuso. Molto status symbol, potenzialmente utile, rigorosamente nero e voluminoso.
Quello che oggi è il prolungamento del braccio di qualsivoglia essere umano vivente nell’emisfero industrializzato dell’orbe terracqueo era, all’inizio degli anni Novanta, un oggetto misterioso. Anche se, a dire il vero, già datato: il primo sistema telefonico radiomobile della storia era nato, neanche a dirlo, negli Stati Uniti nell’anno di grazia 1964. Funzionava in radiofrequenza, sui 160 o 450 MHz, con soli 23 canali bidirezionali. Era un’infrastruttura non proprio efficiente, ma fantascientifico rispetto a quanto escogitato da un certo Lars Magnus Ericsson (il cognome dice qualcosa?), svedese DOC, che – nei primi anni del Novecento – realizzò il primo telefono mobile al mondo. All’ineffabile nordico bastava accostare l’auto – una rarità, per allora – a un palo telefonico, agganciare due lunghe aste, collegate a un telefono, a una coppia di fili sulla quale non fosse in corso una conversazione. Un robusto giro di manovella alla dinamo collegata all’apparecchio et voilà, a Lars Magnus Ericsson rispondeva un centralinista. Sul cui stupore le cronache del tempo, invero, non si soffermavano granché.
Parlando di reti cellulari – quelle che conosciamo noi e che sono un po’ più pratiche del pur ingegnoso (e ormai centenario) sistema scandinavo di cui sopra – molto si deve a Cooper. Che, per una volta, non si chiama John ma Martin. E, anziché con i motori, ha un’ottima confidenza con l’elettronica, forte dell’incarico di Direttore della Ricerca & Sviluppo di casa Motorola. A lui l’onore di passare alla storia compiendo, il 3 aprile 1973, la prima chiamata in pubblico con un prototipo di telefono cellulare. E’ la New York della crisi petrolifera imminente, che farà a cazzotti con i pollici cubici delle Camaro e delle Corvette, capaci di aspirare galloni di benzina per avere delle prestazioni tutto sommato equiparabili alle Alfette e alle Giulia di casa nostra. Quella in cui essere motociclista è ancora un tabù che l’offensiva jap prova, con successo a sfatare: i due tempi non sono ancora peccato, al massimo saranno visti di cattivo occhio quando i Paesi appartenenti all’Opec decidono – corollario della Guerra del Kippur di ottobre – di tagliare la fornitura di petrolio a chi ha appoggiato Israele nel conflitto.
Torniamo al seminato: Cooper usa il prototipo di un telefono cellulare del peso di 1,3 kg ed equipaggiato da una batteria che durava sì e no mezz’ora e ne richiede 10 per la ricarica completa. La musa ispiratrice dell’ingegnere di origine ucraina è un telefilm non certo oscuro: Star Trek, in cui il Capitano Kirk utilizza per le comunicazioni un dispositivo analogo. E’ il via per una comunicazione di tipo portatile, differente da quella in piccola parte già diffusa con i telefoni installati sulle auto – che, peraltro, occupano una buona fetta di bagagliaio a causa delle unità logiche consentite dalla tecnologia del tempo. Per la cronaca, il destinatario della chiamata è Joel Engel, collega (nonché pari grado) presso i Bell Labs: insomma, il telefonino – si fa per dire, ovviamente – è qualcosa di futuristico ma ancora riservato a chi mastica logaritmi e digerisce radiofrequenze.
Quel prototipo entrerà poi in produzione a cavallo tra il 1983 e il 1984 con il nome di Dyna-Tac 8000x: dimagrito di mezzo chilo, costa qualcosa come 4.000 dollari (quando il dollaro, al cambio con la lira, tocca i massimi storici…) e prevede un canone mensile di 50 verdoni per l’utilizzo della rete cellulare AMPS. Diviene ben presto il sogno di tutti gli Young Urban Professional, più comunemente noti come yuppie: insieme al forno a microonde in cucina, ai divani di pelle bianca e nera in soggiorno, al lettore di compact disc e ad altri gadget tecnologici oggi relegati nella gerla della memoria.
In Italia, lo yuppismo arriva di pari passo con il passaggio dalla rete RTMI alla RTMS: acronimi che forse qualche ingegnere o nostalgico tecnocrate ricorda, ma che sottendono ad alcuni cambiamenti epocali. A casa nostra, da metà anni Ottanta si può telefonare (dall’auto o, previo passaggio in palestra, con un pratico trasportabile da tracolla) passando da una cella all’altra senza che cada la linea. Si possono addirittura ricevere chiamate in mobilità (prima, con la RTMI a 160 MHz, si potevano effettuare solamente in uscita, peraltro passando per un operatore) mentre si cammina o si guida. Senza vivavoce, ovviamente. A dire il vero, i veicolari lo prevedono. Ma, dopo avere immolato qualche milioncino di lire sull’altare di uno 0333 (questo il prefisso allora assegnato dalla SIP), come non sfoggiare il gingillo attaccato all’orecchio, mentre l’altra mano danza tra cambio e volante?
Il telefonista al volante viene celebrato da un rampante Ezio Greggio in Yuppies: il monumentale apparato è collocato alla bella e meglio davanti alla leva del cambio di una Y10 Turbo. Corre l’anno 1985, e l’Italia scopre la Milano da bere: un mix tra empatia craxiana e voglia di orologio al polsino come l’Avvocato. Gli fa il paio uno yuppie DOC, un Fabrizio Bentivoglio che – in Via Montenapoleone – risulta simpatico quanto una cartella esattoriale inattesa: alza il telefono dalla Thema (V6, noblesse oblige…) e inizia a sedurre così una Carol Alt ingenua come una cresimanda e bella come una statua votiva.
Dallo 0333 si passa rapidamente allo 0337: i 450 MHz dell’RTMS vanno in pensione con i lavori per Italia 90 – che, col senno di poi, hanno sollevato più di un interrogativo sull’impiego del denaro pubblico. Il Dyna-Tac è sul mercato da qualche anno e si è già guadagnato il soprannome di Brickphone, il telefono-mattone. Al capostipite, l’ingrato compito di essere rinnegato dai successori. Un po’ come se oggi qualcuno preferisse ancora l’alcantara delle Y10 e delle Thema all’asettica perfezione delle utilitarie e delle ammiraglie di oggi. O si ostinasse a girare con un paio di candele di riserva in tasca per amore del due tempi.