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Alfa Romeo in Formula 1: il ritorno con più ombre che luci

Due vittorie da motorista con la Brabham di Niki Lauda e mille difficoltà da costruttore, con qualche acuto degno di miglior fortuna e il rimpianto di un 1980 che avrebbe potuto regalare almeno una vittoria iridata

Un quarto di secolo: tanto passa dal Gran Premio di Spagna del 1951, ultima uscita ufficiale in Formula 1 come costruttore, al Gran Premio del Brasile del 1976, quando a spingere la Brabham BT45 di Carlos Pace e Carlos Reutemann c’è il motore ufficiale, 12 cilindri “piatto”, marchiato Alfa Romeo. Nel mezzo, qualche estemporaneo tentativo di scuderie con il 4 cilindri in linea della Giulietta portato a 1,5 litri dal 1962 al 1965: il record di sfortuna appartiene al rhodesiano Ray Reed, che – con la propria RE-Alfa Romeo – si iscrive al Gran Premio del Sudafrica del ’65, dove già hanno corso le LDS-Alfa Romeo dal ’62 al ’64, ma muore in un incidente aereo poco prima della gara. Non va molto meglio alla De Tomaso, che nel 1961 iscrive una monoposto con motore derivato da quello della Giulietta per Giorgio Scarlatti (che poi non partecipa), e nel 1962 ripete la mossa con il pistoiese Roberto Bussinello, anch’egli non partito. Lo stesso Bussinello, comunque, prende parte al nefasto Gran Premio d’Italia del 1961 (quello costato la vita a Wolfgang von Trips e a 15 spettatori) su una De Tomaso-Conrero, al pari del preside volante Nino Vaccarella, destinato a scrivere pagine di leggenda alla Targa Florio: è Virgilio Conrero, mago della Giulietta berlina, a firmare il lavoro per le auto della Scuderia Serenissima del conte Volpi sulla base di un motore Alfa. Il motore V8 siglato T33 a opera del duo Busso (che lo progetta con cilindrata di 2 litri)-Chiti (che ne realizza la versione 3 litri) per la 33 che compete nel mondiale Sport-Prototipi è installato nel 1968 sulla Cooper T86 di Lucien Bianchi (lo zio di Jules), ma non prende mai il via a Brands Hatch e a Monza; lo fa con la McLaren nel 1970 (Andrea De Adamich è ottavo a Monza, dove Nanni Galli non si qualifica) e con la March nel 1971 (quando, oltre a De Adamich e Galli, alla guida c’è anche Ronnie Peterson, per il solo Gran Premio di Francia).  Il ritorno è in grande stile: il motore 115.12 ha debuttato sulla 33/TT12 tre anni prima. E’ chiamato da taluni boxer; in realtà lo schema è a cilindri contrapposti, con le coppie di bielle posizionate sullo stesso perno di manovella. “Piatto” o boxer che dir si voglia, tra i prototipi ha fatto incetta di successi. Sulla Brabham BT45 si difende bene, ma non eccelle: il primo anno il tallone d’Achille è l’affidabilità, con tre quarti posti raggranellati – Reutemann in Spagna, Pace in Francia e in Germania. Il 1977 va decisamente meglio, ma è funestato dalla morte del brasiliano in un incidente aereo: Reutemann va alla Ferrari e viene sostituito da John Watson, che brucia sul filo di lana il monzese Vittorio Brambilla, più gradito all’Alfa Romeo anche in virtù della sua esperienza con le 33 (non a caso, nel 1977 contribuisce alla vittoria dell’Alfa nel Mondiale Sport Prototipi, conquistando tra l’altro la 500 km di Monza dopo avere riparato a sprangate il posteriore danneggiato della propria vettura durante una leggendaria sosta ai box). Il posto di Pace viene preso dal tedesco Hans-Joachim Stuck, che conquista due podi in Germania e in Austria; Watson sigla la pole position a Montecarlo ed è secondo in Francia, lo stesso risultato ottenuto da Carlos Pace nel Gran Premio inaugurale, in Brasile. La stagione si chiude con la Brabham-Alfa Romeo quinta nel Mondiale costruttori e un acquisto sensazionale per il 1978: a fare coppia con John Watson è Niki Lauda, due volte iridato e transfuga dalla Ferrari. Per la BT46 (anche se le prime gare dell’anno vengono affrontate con la BT45 aggiornata) motorizzata Alfa Romeo arrivano in dote il numero 1 di Lauda e il munifico sponsor Parmalat, che rimpiazza la Martini e Rossi.  All’Autodelta, comunque, non si sta con le mani in mano, tutt’altro: all’ingegner Chiti (che non aspetta altro) viene commissionato il progetto che prevede il rientro in Formula 1 dell’Alfa Romeo come costruttore. E’ il 1977 (il che fa chiamare 177 il progetto stesso), il debutto in pista è previsto per l’anno successivo, pur se mai ufficialmente dichiarato. Lo sviluppo viene portato avanti da Brambilla, in seguito affiancato dal bresciano Bruno Giacomelli; anche Niki Lauda – al Paul Ricard – la prova, esprimendo un giudizio sostanzialmente positivo (ma, visti i rapporti tra Brabham e Alfa Romeo, divenuti nel frattempo tesi, non può che essere così: è una dichiarazione più politica che sincera). In questo modo, la Casa milanese viene chiamata a un duplice, arduo, compito: sviluppare da zero una propria monoposto (pneumatici compresi) e continuare a fornire come motorista una scuderia, la Brabham di Bernie Ecclestone, che punta dichiaratamente al titolo. Oltre a questo, il 1978 si rivela una delle annate più rivoluzionarie dell’intera storia della Formula 1: la Lotus 79 disegnata da Colin Chapman introduce di forza l’effetto-suolo, dominando il campionato e regalando a Mario Andretti il titolo iridato. La Lotus detta le indicazioni per il futuro con le proprie minigonne e i condotti Venturi; anche la Brabham vorrebbe recepirli, ma si scontra con un limite strutturale del motore. Il V12 “piatto” ha un elevato ingombro trasversale, che rende impossibile prevedere l’alloggiamento nel sottoscocca dei condotti stessi. Può essere (e in effetti lo è) più potente degli altri motori in circolazione (rivaleggiando in questo senso con il boxer Ferrari), ma limita la necessaria evoluzione aerodinamica della monoposto. Il che porta a un conflitto sempre più marcato tra i progettisti della Brabham, Gordon Murray in testa, e i motoristi dell’Alfa, vale a dire Carlo Chiti e la sua équipe.  Mentre l’Alfa Romeo 177 viene portata avanti già vecchia – questo, ovviamente, col senno di poi – la Brabham riprende un’idea della Chaparral e presenta al via del Gran Premio di Svezia la BT46B, con un enorme ventilatore posteriore. Ufficialmente, per raffreddare un radiatore posto sopra il motore; in realtà, per creare una depressione tale da schiacciare l’auto al suolo. L’escamotage funziona, e Lauda vince a mani basse. Ma proteste e reclami non tardano ad arrivare (anche perché la ventola è in grado di espellere a forte velocità detriti potenzialmente pericolosi per chi segue), e la monoposto viene dichiarata fuorilegge. Tutto da rifare, insomma: per l’Autodelta il lavoro si intensifica ulteriormente, perché Chiti inizia a pensare di realizzare un V12 con bancate a 60 gradi partendo dal motore “piatto”, a tutto vantaggio dell’aerodinamica e dell’equilibratura. La cosa avviene in soli tre mesi, e per il 1979 la Brabham BT48 porta in pista il nuovo motore, siglato 1260.  Tuttavia, concluso il 1978 con Lauda quarto nel Mondiale (e la Brabham terza tra i costruttori), il 1979 è un annus horribilis per l’accoppiata Brabham-Alfa Romeo, con il rapporto che si interrompe anzitempo (alla vigilia del Gran Premio del Canada, in contemporanea al ritiro dalla Formula 1 del demotivato Niki Lauda, che avrà tempo per ripensarci): i fatti danno poi ragione agli inglesi, visto che il Ford-Cosworth permette al novellino Nelson Piquet, che ha rimpiazzato Watson, di partire in prima fila nel Gran Premio conclusivo, a Watkins Glen. Per l’Alfa Romeo, comunque, c’è il debutto della 177: Giacomelli si qualifica quattordicesimo in Belgio, ironia della sorte proprio dietro alla Brabham di Lauda, salvo poi ritirarsi dopo una ventina di giri per un incidente. Quattro sono le presenze complessive di Giacomelli a tutto il 1979, con il miglior risultato di un diciassettesimo posto al Gran Premio di Francia; lo affianca Vittorio Brambilla, dodicesimo a Monza, ritirato in Canada (dove corre al posto di Giacomelli) e non qualificato al Glen per un’inezia. Le difficoltà sono evidenti per la 177; tuttavia, per il 1980 è in programma la prima stagione completa della wing-car siglata Alfa Romeo 179 (che è stata già svezzata a Monza da Giacomelli, con Brambilla ancora sulla 177), un robusto sviluppo tecnico grazie al nuovo sponsor Marlboro e l’approdo di un ottimo pilota quale Patrick Depailler, veloce in pista e meticoloso nei collaudi (ma anche reduce da un incidente in deltaplano che lo ha costretto a mesi di inattività nella precedente stagione).  Giacomelli è quinto al traguardo nella gara inaugurale in Argentina; già nel terzo Gran Premio della stagione, in Sudafrica, Depailler si qualifica settimo, e le cose vanno ancor meglio a Long Beach, quando il francese si qualifica con il terzo tempo (e Giacomelli è sesto). In gara, è una sospensione a tradire il transalpino, a lungo in zona-podio, a metà gara, mentre il bresciano si tocca con Alan Jones e conclude così la propria corsa. Le Alfa Romeo sembrano competitive: per le successive quattro tappe, almeno una 179 è stabilmente nella top 10 in qualifica. Risolti i problemi di affidabilità, le soddisfazioni non dovrebbero tardare ad arrivare: il telaio è competitivo, il motore anche – a dispetto di un’alimentazione (con iniezione meccanica) non certo all’avanguardia. Ma il destino avverso, e la probabile rottura di una sospensione, sono fatali a Depailler: è il 1 agosto 1980 quando la sua monoposto, durante prove private a Hockenheim, esce di pista alla velocissima Ostkurve. Il francese muore con una dinamica da film dell’orrore, dilaniato dal guardrail; in gara Giacomelli raccoglie due punti arrivando quinto al traguardo, dedicandoli alla memoria del compagno di squadra. La seconda vettura viene affidata per due gare a Brambilla (che a Imola, nel Gran Premio d’Italia, prende parte all’ultima delle 74 gare disputate in Formula 1) e, in seguito, al romano Andrea De Cesaris (ottavo in prova al Gran Premio del Canada al debutto assoluto). Ma sono gli acuti di Giacomelli a tenere banco: è a lungo quarto prima di ritirarsi in Olanda, si qualifica quarto al Gran Premio d’Italia (dopo essere finito in un fosso insieme a Chiti e Brambilla mentre sta andando in circuito su una normalissima berlina…) salvo ritirarsi per una foratura dopo cinque soli giri; ottiene lo stesso risultato (compreso il ritiro nelle primissime tornate) in Canada e, finalmente, per Giacomelli arriva la prima pole position in carriera a Watkins Glen. Negli Stati Uniti, il bresciano si invola facendo gara a sé per 30 giri; la trentunesima tornata è fatale al V12, che ammutolisce. E’ una bobina da poche migliaia di lire a smorzare un urlo rimasto in gola dal 1951 a tutti gli alfisti: a Bruno non rimane altro che l’applauso degli spettatori, e a Chiti – verosimilmente – una consolatoria abbuffata in ossequio al suo amore sviscerato per la buona tavola.  Il 1981 porta all’Alfa Romeo il campione del mondo 1978 Mario Andretti a fianco del confermato Giacomelli: dovrebbe essere una stagione all’insegna della stabilità e della crescita (la 179 viene evoluta costantemente), ma a fine anno ci sono solo 10 punti nel carniere del Biscione: dopo un promettente quarto posto nel Gran Premio inaugurale di Long Beach, Piedone infila una terrificante serie di ritiri e piazzamenti fuori dai punti, mentre Giacomelli è quarto in Canada e terzo sul circuito cittadino di Las Vegas, ultime tappe della stagione. Quello in America sarà, nel giorno del primo Mondiale conquistato da Piquet e della più cocente delusione della carriera per Carlos Reutemann, l’unico podio in Formula 1 per il bresciano. L’anno successivo vede Andrea De Cesaris, reduce da un anno alla McLaren, prendere il posto di Andretti, con Giacomelli ancora saldo sulla seconda vettura. La novità si chiama 182: è la prima monoposto Alfa Romeo con telaio in fibra di carbonio, progettata dal francese Gérard Ducarouge, appiedato dalla Ligier e transfuga verso le terre italiane. Il suo è un ruolo forte, spesso conflittuale con quello di Chiti: eppure, a dispetto di un motore che inizia a soffrire l’ascesa dei turbo, l’Alfa vive di sprazzi, con De Cesaris in pole position a Long Beach alla terza gara dell’anno (diventando, all’epoca, il più giovane della storia a partire al palo) e terzo in un pazzo Gran Premio di Monaco che potrebbe vincere se non finisse la benzina. Al Gran Premio d’Italia la scocca della 182 accoglie il primo motore turbo del Biscione, che tuttavia viene impiegato solo in prova.  Il 1983 segna il punto di massima competitività dell’Alfa Romeo in Formula 1: il 1982 si chiude con molti dubbi relativi al prosieguo dell’attività. La proprietà spinge per la sola fornitura dei motori, la squadra corse vuole proseguire, convinta della bontà del progetto 183T: il compromesso passa per l’affidamento della struttura sportiva all’Euroracing, una realtà esterna con una buona esperienza nelle formule minori, guidata da Giampaolo Pavanello. Chiti e Ducarouge sono di troppo: sugli aspetti politici della vicenda torneremo in seguito, mentre quelli sportivi sono migliori del previsto. L’unità 890T è un V8 turbo, l’unico tra i motori di Formula 1 con questo frazionamento: nella seconda parte della stagione permette a De Cesaris di conquistare due secondi posti, in Germania e in Sudafrica. Il romano vive un vero e proprio momento di gloria, con annessi rimpianti per un ritiro dovuto al cedimento del motore, in Belgio, conducendo per svariati giri (e infilando due partenze-fotocopia che lo portano in testa alla prima curva dalla terza casella in griglia) e siglando l’unico giro più veloce della carriera. Poca gloria per il reggiano Mauro Baldi, sostituto di Giacomelli, che sigla solo tre punti iridati.  L’anno successivo la 183T viene sostituita dalla 184T, disegnata da Luigi Marmiroli (che sostituisce lo scomodo Ducarouge a partire dal Gran Premio di Francia del 1983, licenziato con un pretesto legato agli estintori dell’auto di De Cesaris, trovati vuoti dopo la qualifica) e da Mario Tollentino: evoluzione della 183T, è penalizzata dalla sete del V8 turbo che mal digerisce il limite dei 220 litri per gara imposti dal nuovo regolamento sportivo, e spesso è costretta a viaggiare a potenza limitata per finire le gare. Esempio lampante è il Gran Premio d’Italia: Eddie Cheever, assunto al posto di Baldi, rimane a secco a cinque giri dalla fine mentre è terzo, lasciando la posizione al compagno di squadra Riccardo Patrese, che ha rimpiazzato Andrea De Cesaris. La stagione si chiude con mille dubbi e dieci miseri punti iridati (sette per Patrese e tre per Cheever), cui se ne aggiungono altri due conquistati dal bergamasco Piercarlo Ghinzani su Osella-Alfa Romeo a Dallas. Già, perché la derelitta Alfa Romeo, pur con mille problemi interni, dal 1983 è fornitore di motori anche per la piccola scuderia piemontese: una partnership che durerà, tra mille traversie, fino al 1988. La seconda Osella di Jo Gartner, quinta in Italia, non prende punti perché a inizio stagione è stata iscritta la sola vettura di Ghinzani.  

 

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