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Noi, i più grandi sconfitti

Non è raro che i Mondiali di Formula 1 si concludano all'ultima gara: in genere, l'iride se lo giocano piloti dal talento cristallino, come Vettel e Alonso quest'anno. E solo uno è destinato a vincere.

Anche se non ho vinto il titolo, questa è stata la mia stagione migliore in Formula 1”: così Fernando Alonso subito dopo il rocambolesco Gran Premio del Brasile che ha assegnato a Sebastian Vettel il terzo alloro iridato consecutivo, dopo avere giocato all'autoscontro prima e alla Grande Rimonta (mentre il rivale asturiano tentava la Grande Fuga, scontrandosi ben presto non tanto con Bruno Senna in partenza, quanto con i limiti della Ferrari) poi.

Mettiamola così: se lo spagnolo – la cui classe è indiscutibile – non avesse vinto i titoli del 2005 e del 2006, si sarebbe conquistato a Interlagos un posto tra i più grandi perdenti della Formula 1. Classifica non scritta che termina sul filo di lana, e che si scontra con una dura tautologia: ogni anno, il Campione del Mondo può essere uno soltanto. Con buona pace degli altri contendenti.

Stavolta è meglio andare a ritroso, per passare dall'oggi alla notte dei tempi, e partire da un presupposto: l'arrivo in volata – vale a dire, il titolo assegnato all'ultima gara – non è inconsueto nella storia dei 63 Mondiali assegnati a partire da quello, inaugurale, del 1950. Senza avventurarsi in analisi tecnico-tattiche-cabalistiche (chi ha pensato a Chris Amon è fuori strada: la sfiga dei secondi è ben poca cosa rispetto a quella, omnicomprensiva e leopardiana nel profondo, del neozelandese), e limitandosi per brevità agli ultimi trent'anni, ecco per sommi capi l'epopea dei Beffati.

Nel 2010, ad Abu Dhabi, la lotta per il titolo è aperta alle Red Bull di Webber e Vettel, che braccano la Ferrari del capoclassifica Alonso, con una tenue speranziella per la McLaren di Hamilton, che sarebbe campione in caso di catastrofe multipla ai tre sopracitati: il box Ferrari decide di marcare stretto l'australiano, che segue Alonso con un distacco di otto punti, servendo il Mondiale su un piatto d'argento a Vettel. Il tedeschino si unisce così al ristretto novero degli iridati che hanno vinto il titolo balzando in testa alla classifica per la prima volta nell'ultima gara: prima di lui ci sono riusciti solo James Hunt nel 1976 e John Surtees nel 1964.

Due anni prima, nel 2008, a Felipe Massa va anche peggio: è campione fino all'ultima curva di un Gran Premio del Brasile che vede Timo Glock cedere un mare di posizioni (già, perché anche allora a Interlagos pioveva a catinelle) negli ultimi chilometri a causa della scelta di proseguire sotto il diluvio universale con le slick. Il titolo va a Lewis Hamilton; a Massa il tributo della propria gente e la solidarietà di tutti i gatti neri che attraversano le strade del Pianeta.

Hamilton, si è detto: con un'umiltà genuina quanto una banconota da venticinque euro, si presenta ai nastri di partenza del Mondiale 2007 su una macchina concepita per vincere – la McLaren – e con un compagno di squadra un tantino scomodo: il bicampione mondiale Alonso, appena arrivato dalla Renault. Tra i due è odio sportivo a prima vista, e tra di loro è il ferrarista Raikkonen a godere: rimonta 17 punti nelle ultime due gare e beffa il duo McLaren di un punto nella tappa finale di Interlagos. Un distacco ben più risicato rispetto all'anno prima, quando Alonso riesce a regolare Schumacher, matematicamente in lizza fino all'ultima gara, di 13 punti: ma il tedesco, a pari punti con lo spagnolo a due gare dalla fine, il titolo lo perde a Suzuka, quando il suo motore esala l'ultimo respiro a 17 giri dal termine.

L'appena citato Michael Schumacher segna, tra vittorie (molte) e sconfitte (qualcuna) dodici anni a cavallo tra il 1994 e il 2005: nell'anno della morte di Senna, approdato alla Williams vincente nel 1992 e nel 1993 per conquistare il quarto titolo e invece tradito fatalmente al Tamburello da una modifica al piantone dello sterzo, il tedesco si fa speronare da Damon Hill ad Adelaide laureandosi iridato per la prima volta. Pare peraltro che molti titolari di autoscontri si siano in seguito ispirati alla manovra di quel 36° giro da parte di Michelone, ma questo è un altro discorso.

Nel 1997, il tedesco si presenta al decisivo Gran Premio d'Europa con un punto di vantaggio su Jacques Villeneuve: Schumacher, con l'istinto del serial winner, tenta di ripetere qualcosa di simile ad Adelaide '94. Ma stavolta il figlio di Gilles non è il figlio di Graham, e a farsi male è la Ferrari del Kaiser: sospensione KO, titolo a Villeneuve jr. per tre punti ed esclusione del tedesco dalla classifica iridata per la scorrettezza ai danni del canadese.

Nel '98 è il Giappone a rivelarsi atto finale della corsa all'iride: Mika Hakkinen su McLaren precede di quattro punti la Ferrari di Schumacher. Potrebbe essere una gara al fulmicotone, ma la frizione della Rossa cede in partenza e il prode Michael tenta una rimonta impossibile, conclusa al 37° giro con un pneumatico a brandelli. Ci riproverà l'anno successivo, ma a Silverstone il tedesco immola la gamba destra contro un muretto a causa di un problema all'impianto idraulico della propria Ferrari e il candidato al titolo diventa d'ufficio Eddie Irvine, fino ad allora più scanzonato playboy che pilota vincente. La battaglia con Hakkinen è avvincente e costellata di errori da ambo le parti, ma a Suzuka il rientrato Schumi parte male dalla pole e, anziché fare da scudiero all'irlandese, consegna il titolo (per tre punti) all'alfiere McLaren. Con buona pace dei ferraristi che aspettano un iride da vent'anni tondi tondi: si rifaranno con gli interessi a partire dall'anno successivo – e per un lustro filato.

Nell'epoca pre-Schumi, i duelli rusticani all'ultima gara sono appannaggio dei Cari Nemici Alain Prost e Ayrton Senna. Il primo è talento, politica e velocità; il secondo, anche (e forse qualcosa in più…). Il cocktail, messo insieme nel 1988 da Ron Dennis in McLaren, non può che essere esplosivo. Perso per il gioco degli scarti il titolo 1988 a favore del brasiliano, il francese – con buona memoria e ottima malmostosità – decide di vincere il titolo '89 facendosi buttare fuori da Senna a Suzuka: con la squalifica del brasiliano per l'incidente (chissà da chi avrà tratto ispirazione Schumacher per le prodezze di Adelaide e Jerez…), l'ultima gara diventa ininfluente. Lo stesso dicasi per il 1990: stavolta è Senna – con altrettanto buona memoria e altrettanto ottima malmostosità – a centrare in pieno Prost in Giappone. Curiosamente, gli anni più infuocati della Formula 1 dell'era a cavallo tra turbo e aspirato non hanno mai assegnato il titolo all'ultima gara.

Il ménage a trois del 2007, quello in cui i compagni di squadra litigano e il terzo vince, ha un precedente-fotocopia nel 1986: in casa Williams, si scontrano i caratteri di Nigel Mansell e Nelson Piquet, mentre Alain Prost, dopo due vittorie nelle prime quattro gare, si mette a fare la formichina quando la sua McLaren va in debito di prestazioni nei confronti delle monoposto di Bicester. In Australia, atto conclusivo della stagione, Mansell si presenta con 70 punti; Prost ne ha 64 e Piquet 63. La stagione è decisa dagli pneumatici: in Australia, la Goodyear presenta una mescola che dovrebbe reggere per tutta la gara senza costringere ai box i piloti. Dovrebbe, appunto. Perché Prost buca a metà gara e il povero Mansell è costretto a un controllo della vettura impazzita a più di 300 km orari, con entusiasmo per avere riportato a casa la pelle, ma senza Mondiale in tasca: obbligato ad anticipare l'inevitabile (e imprevedibile sulla carta) sosta ai box, il francese si ritrova Campione quasi senza volerlo. Anche perché Piquet, secondo al traguardo, decide di tagliarsi fuori dalla lotta per la vittoria con un testacoda dopo pochi giri.

Non che per Prost siano sempre state rose e fiori: nel 1984 il francese si arrende al redivivo Niki Lauda per mezzo punto – il distacco più risicato della storia – in un finale all'Estoril che più thrilling non si può. E, giusto per girare il coltello nella piaga, nel 1983 trova il modo di perdere un Mondiale già vinto con la Renault a danno di Piquet: fatale gli è il ritiro nel decisivo Gran Premio del Sudafrica, nel quale il brasiliano raggranella quattro punti sufficienti a chiudere la stagione in vantaggio di due sul Professore Triste.

Un pilota che, al pari di quelli sopracitati, appartiene di diritto al Gotha dell'automobilismo. Nessuno di essi, winner per natura e a volte serial winner per investitura divina, ha chiuso la propria carriera (Vettel a parte, per ora) vincendo sempre i confronti all'ultima gara. Neppure Lauda, cui è stato fatale il Fuji nel 1976. Rinato alle fiamme del Nurburgring, in Giappone si ferma al secondo giro sotto il diluvio. Forfait, paura. Legittima. Il titolo lo vince James Hunt, e leggenda vuole che i meccanici sostengano che “El s'è caghé adoss!”. La sostanza è sempre quella, ma con significato diverso: il “Mucha mierda” per Alonso nel 2013 sottende a un arrivo in solitario. Perché allo sprint anche i grandissimi possono soccombere.

 

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