Serial winner: una razza a parte
Oltre i campioni, più in alto dei campionissimi. Ecco i cannibali degli sport motoristici: quelli che, di un solo titolo iridato, non sanno cosa farsene
Se il Mondiale di Formula 1 non ha ancora scritto il nome dell'iridato 2012 nel proprio albo d'oro, con la contesa circoscritta a Sebastian Vettel e a Fernando Alonso, la conclusione non può che essere una: bravissimo chi si aggiudicherà il titolo, ma ancora poca cosa di fronte alla Storia. Anzi, al Gotha, visto che – titoli dei due alla mano – non si potrà parlare altro che di tre volte Campione del Mondo.
Meglio partire da un presupposto: in Formula 1, difficilmente si arriva quando si ha poca confidenza con il pedale del gas. Gli stessi piloti che hanno fatto sorridere impietosi gli esperti da bar, ammazzacaffè, chiacchiera da Gazzetta e analisi tecnica a 24 pollici, spesso hanno ottenuto risultati significativi in categorie minori o alternative. Ogni anno, giusto per sciorinare la gestione dell'ovvio, il Campione del Mondo è uno solo. E tanto basta per parlare d'impresa.
Tuttavia, chi riesce a fregiarsi dell'iride nulla può dire davanti ai 7 titoli di Michael Schumacher. Il tedesco neorottamato in favore di Lewis Hamilton ha vinto nel 1994 e nel 1995 su Benetton, e instaurato una vera e propria dittatura sportiva dal 2000 al 2004. Trionfi sudati in alcuni casi e sofferti in altri: la sconfitta non fa parte del DNA di un serial winner, riducendosi a incidente di percorso. Come nel 1997 – il termine incidente non è casuale – quando speronò in nome del titolo Jacques Villeneuve al 47° giro del decisivo Gran Premio d'Europa: manovra che gli costò l'esclusione dalle classifiche iridate e un discreto conto dal carrozziere per la F310B immolata contro la Williams del canadese. O nel 2006, quando la sfortuna presentò a Schumacher il conto sotto forma di Gran Premio del Brasile: il tedesco corse, con buona probabilità, la gara più bella della sua ultraventennale carriera, ma il titolo fu appannaggio di un giovanotto asturiano, tal Fernando Alonso.
Nove sono tanti e rappresentano il massimo per l'espressione più alta degli sport a quattro ruote, ma sono poca cosa di fronte a quanto si può trovare nel motociclismo. Dici Motomondiale e pensi ai 15 inarrivabili titoli del Divino Ago: sette in 350 e otto in 500. Si può ricordare a vita come spesso Agostini abbia vinto titoli correndo praticamente da solo. Ma l'albo d'oro se ne dimentica consapevolmente, e rende lustro alla carriera del Campionissimo per antonomasia. A ruota di Agostini non può non essere citato lo spagnolo Angel Nieto: 13 titoli per lui, anzi – per dirla con sue parole – 12+1. La superstizione ha accompagnato per tutta la carriera Nieto. E, a conti fatti, gli ha portato bene. Qualche gradino più sotto, il terzetto composto da Carlo Ubbiali, Mike Hailwood e Valentino Rossi. Absit iniuria verbis, l'ordine è rigorosamente cronologico. Per tutti e tre il rimpianto si chiama doppia cifra: Lorenzo permettendo, Valentino sembra intenzionato a chiudere il cerchio il prossimo anno.
Da ultimo, la chiusura spetta a Richard Petty. The King, l'unico che è stato chiamato con l'appellativo di Re. Figlio d'arte, Petty ha vinto 7 titoli Nascar (al pari di Dale Earnhardt, l'Intimidator morto sul campo nella Daytona 500 del 2001), 3 Grand National e 4 Winston Cup, con il corollario di 7 trionfi nella Daytona 500. 200 sono le vittorie complessive di King Petty, un record all-time che solo i più audaci possono sognare di avvicinare. Figlio della Carolina del Nord, proveniva da un paese in cui l'unico sbocco sembrava essere coltivare tabacco o allevare maiali. Da Level Cross è arrivato sul tetto del mondo. Il suo, ovviamente: quello a stelle e strisce. Quello in cui The King è solo lui. E poco male se tutto ciò che non siano Stati Uniti d'America lo ignora.