“E i francesi che s’incazzano. Che le palle ancora gli girano…”
Quella che Paolo Conte canta nella sua famosissima e bellissima “Bartali” è l’incazzatura dei francesi che assistono impotenti alla debacle dei campioni transalpini sotto le sfuriate del nostro Ginettaccio, che vincerà il loro Tour. Oggi ad incazzarci dovremmo invece essere noi, guardando come i cugini d’Oltralpe trattano il Ciclismo e ne ricevono, in cambio, popolarità e vantaggi economici. L’ultima conferma, se mai ci fosse bisogno di avere l’ennesima, l’hanno data i Campionati del Mondo di MTB appena disputati a Les Gets, davanti a un pubblico con numeri da record.
Bidet contro campanilismo
Vabbé, possiamo continuare a consolarci dicendo che i francesi non hanno il bidet, oppure abbassare le orecchie e ammettere una volta per tutte che, quando di mezzo c’è lo sport – il Ciclismo in particolare – ci mangiano in testa.
Per onestà intellettuale devo ammettere che anch’io ero fra coloro che, con ottuso campanilismo, difendevano il Giro nei confronti del Tour: le nostre tappe sono più belle, le nostre salite sono più dure, se avessimo noi i loro soldi… Palle!
Ad aprirmi gli occhi è stata Continental. Nel senso che, in qualità di sponsor del Tour, ha organizzato un evento dedicato i giornalisti, al quale ho avuto l’onore e la fortuna di partecipare: pedalare poco prima del passaggio dei professionisti, sulle strade di una delle tappe simbolo di questa edizione, la settima, quella della Super planche des belles filles.
Omar e Capitan Zwift
Già al momento della mail di invito, leggendo la meta dell’avventura, l’ansia da prestazione ha cominciato a montare fino quasi al livello di guardia. Il terrorismo psicologico messo poi in atto sull’aereo da uno dei cinque compagni d’avventura ha peggiorato le cose: aveva passato l’ultima settimana su Zwift, “pedalando” sul percorso e non la smetteva di recitare le pendenze a doppia cifra – con il 2 davanti -, che ci avrebbero umiliati nei chilometri finali… Ciliegina velenosa su una torta già poco dolce, scoprire che della compagnia avrebbe fatto parte anche Omar di Felice, ultracyclist di fama mondiale, il quale invece di spostarsi come noi via cielo, sarebbe arrivato fino in Lussemburgo in bici, così per mettere qualche chilometro nelle gambe.
Ecco, questa era l’atmosfera con la quale aveva preso il via la mia avventura al Tour de France. Per fortuna, in tutto ciò c’era un aspetto positivo non trascurabile: non avremmo pedalato tutti i 176 km della tappa, ma solo i 70 km finali, quelli però che contenevano tutto il dislivello e in cui i campioni si sarebbero giocati vittoria e Maillot Jaune.
La cena aveva contribuito a stemperare la tensione e a far crescer lo spirito di gruppo. Come un vero team avevamo nominato un Capitano (“Zwift”, che la tappa la conosceva a memoria centimetro per centimetro) e un outsider, che avrebbe potuto correre da cane sciolto (Omar, visto che dopo aver pedalato la settimana precedente il perimetro dell’Irlanda in autosufficienza viveva questa “impresa” come una banale sessione di defaticamento…).
Uguali ai Pro
La mattina seguente, tutti con l’elegante divisa Continental nera a mettere insieme la colazione del campione, poi sul bus che ci avrebbe condotti al punto di partenza. Lì ci aspettavano le bici equipaggiate con gli stessi pneumatici Grand Prix 5000 TL Tour de France riservati ai Pro, fatti a mano in edizione limitata, ma anche un meccanico che avrebbe fatto le ultime misurazioni per metterci in sella in modo perfetto. Ma c’era dell’altro… La scorta dell’ammiraglia con a bordo il nostro DS e i rifornimenti del caso, e soprattutto un guida d’eccezione: un atleta greco olimpionico a pedali. Con tutto questo dispiegamento di forze, arrivare al traguardo con una certa dignità era l’obiettivo minimo.
Tornando al discorso iniziale sui Francesi e sul Tour, i nostri settanta chilometri di tappa, percorsi in un normalissimo martedì lavorativo, mi hanno fatto riflettere. Non solo i tifosi ai bordi della strada anche nel più insignificante (ai fini dello spettacolo) rettilineo, ma i paesi vestiti a festa e, soprattutto, l’entusiasmo della gente (quanti bambini…) al passaggio del nostro gruppo di signori nessuno. Man mano che ci avvicinavamo al clou di giornata, ossia i dieci chilometri conclusivi, l’intensità dei ciclisti sulla strada, dei tifosi e del loro incitamento, cresceva come l’altimetria. Cominciavano i travestimenti, gli striscioni e le bandiere, i barbecue a bordo strada, i campanacci e le vuvuzela. E noi, dietro l’ammiraglia che chiedeva e faceva strada, ci sentivamo dei protagonisti.
Crampi di gioia
A dire il vero, io mi sentivo anche un po’ un imbarazzo, perché l’andatura e la smorfia sul volto non erano delle più esaltanti ma, tant’è, i francesi ci e mi facevano comunque una grande festa. E gli ultimi chilometri di salita, quelli veri e propri della Super Planche des Belles Filles sarebbero stati una incredibile passerella, chiusi a qualsiasi ciclista tranne che a noi. Qui mi sono reso davvero conto del potere taumaturgico del tifo, capace di portare alla luce energie nascoste chissà dove. I professionisti sarebbero passati qualche ora più tardi e quindi il pubblico era già posizionato. C’erano persone ovunque, grida, rumori, odori di cibo, colori di costumi e parrucche… La fatica si alleggeriva e le gambe continuavano a girare anche sulle pendenze più severe.
Che emozione passare sotto l’arco dell’ultimo chilometro, la flamme rouge, sapendo che in quello stesso scenario e su quello stesso asfalto (e sterrato) si sarebbero fra poco dati battaglia i più grandi ciclisti del mondo. Sarebbero passati a velocità doppia o tripla della mia, che avevo le gambe ormai di gesso e che non volevano più saperne di spingere sui pedali. Solo la spinta del pubblico, che batteva forte sulle transenne e gridava, mi facevano continuare a mettere metri sotto le ruote. Ma a cinquanta metri dal traguardo, anche l’incitamento della gente non è riuscito a vincere la resistenza del corpo, che ha deciso di dire “basta, ora se vuoi continui spingendo a piedi”. E così è stato, sono sceso di sella e con le gambe preda dei crampi ho portato con fatica la mia bici fin sotto il traguardo, respirando a bocca aperta, con il cuore a mille, accompagnato da un sentimento misto di delusione e felicità. Alla fine, però, dopo l’abbraccio con i miei compagni, la felicità ha cancellato tutto il resto.
Prologo
A proposito dei miei compagni, il capitano “Zwift” è incappato in una giornata no e anche lui ha spinto la bici, Omar ha fatto l’exploit, tagliando il traguardo un manciata di minuti davanti a tutti, senza una goccia di sudore e gli altri hanno orgogliosamente concluso senza mettere il piede a terra. Il tempo di rifiatare e siamo tornati al piazzale dell’ultimo chilometri, dove nell’hospitality Continental abbiamo assistito all’arrivo dei corridori fino al momento in cui li abbiamo potuti seguire dal vivo, davanti a noi.
Andavano talmente veloci che ho fatto fatica a scorgere le maglie Gialla, Verde e a Pois, scomparse ben presto nel polverone del tratto sterrato. Davanti allo schermo abbiamo poi seguito lo sprint finale fra Vingegaard e Pogačar, sul terribile strappo al 24% che io avevo scalato a piedi, ansimando.
Se la nebbia che mi aveva fatto – fino a un giorno prima – difendere strenuamente il Giro rispetto al Tour si era già dissipata quasi completamente, a schiarire definitivamente le idee è stata la discesa verso valle, a bordo del nostro bus. L’unica volta che avevo visto una simile fiumana di gente lasciare un evento era stato nel 1984, al concerto di Bruce Springsteen, a San Siro…