«Locatelli fa le cose per bene» recita un celebre slogan, e Roberto pare aver preso ispirazione. Un bimbo bergamasco che inizia col calcio, ma a cui la terra sacra dell’enduro passa presto la travolgente voglia di moto. Lui ha un gran talento e vince presto l’Italiano Cadetti 125… La carriera motori è avviata. Poi, quasi per caso, prova la moto da pista e dopo vari tentativi corona il suo percorso con un alloro iridato. La sua storia da vincente è costellata da due stelle con il cognome più popolare d’Italia… uno più famoso dell’altro.
Le tue origini, Loca
«La mia storia sportiva parte da bambino. In Italia, in genere, si è più vicini al mondo del calcio, perché è per tutti e lo trovi ovunque appena fuori casa; ma poi, l’attrazione per la moto è stata irresistibile, era nel sangue».
Rossi & Rossi, gira che ti rigira, ci hai a che fare e sempre ad altissimi livelli… sul tetto del mondo come pilota e sul tetto dei coach alla Academy, una delle realtà più importanti del motomondiale.
«Ti dico che per me, questa coincidenza di nomi, significa che se lavoro con un Rossi va tutto alla grande: cioè, un cognome garanzia di qualità. Un sogno, anzi due, realizzati, per via dello spessore dei due personaggi. Mi rendo conto della mia fortuna, pensando che in tanti ambirebbero anche solo a incontrare uno, l’altro o entrambi, almeno una volta nella vita. L’esperienza con Vasco Rossi ha dell’incredibile, se penso che sono passato dall’essere suo fan che lo guardava sotto il palco ai concerti a suo “operaio”, nel senso di dipendente. Soprattutto sono stato l’unico ad aver vinto un Campionato del mondo con il suo team… (anno 2000). Poi, dopo quasi vent’anni, nel 2019, un’altra eccellenza chiamata Rossi è entrata nella mia vita e mi ha offerto la fantastica opportunità di lavorare con lui; il Valentino nazionale, che mi ha ingaggiato come coach del suo team Sky VR 46: lui, per me, è l’immenso del motociclismo».
Rossi & Rossi
I due Rossi si conoscono e stimano reciprocamente, seppur appartenenti a mondi e stili di vita lontanissimi, quasi opposti. Cos’hanno in comune?
«Secondo me il talento. Hanno la natura che li ha creati già grandi, già diversi. Forse inimitabili. Magari i giovani cantanti sognano di essere il signor Rossi della musica; come pure tanti piloti, almeno il novanta per cento, vorrebbe essere quello del motociclismo. Quindi la cosa in comune è che loro sono nati così, capaci e unici. Emularli è difficile».
Parliamo di un tuo pilota, Luca Marini, fratello di Valentino: lui ha fatto un percorso meno eclatante rispetto al #46, perché è esploso quest’anno, dopo un esordio meno dirompente, con più calma e anche un atteggiamento mediatico decisamente più sobrio e composto. Mentre Il Dottore, sin dagli esordi fu un ciclone di prestazioni e personalità buca-schermi e attira-microfoni.
«Luca Marini è un pilota fortissimo, davvero veloce. Purtroppo i giornali hanno sempre fatto dei confronti con il fratello. Si poteva evitare, o comunque non in quel modo. Confronti che hanno penso pesato sin dagli inizi delle sue gare internazionali, e probabilmente anche condizionato il suo rendimento. Nella fase della crescita lui è sempre stato guardato con una lente d’ingrandimento più grossa rispetto agli altri, e vi assicuro che non è facile, specialmente per la testa. In realtà è sempre stato uno di quelli buoni; non a caso, nel 2020 si è sbloccato ed è riuscito a esprimersi al meglio delle sue potenzialità. Giusto anche dire che ha avuto un pacchetto tecnico e un team vincente, ma entrambe le parti del binomio pilota-moto sono state competitive allo stesso modo: è così che arrivano i risultati, oggi, insieme alla motivazione e l’equilibrio di testa».
Quest’anno è il compleanno 69 di Vasco. Che cosa gli vorresti dire, così, di getto?
«Che il Vasco speciale che ho conosciuto, lo è ancora a 69 anni. La qualità non è cambiata. E non parlo di doti artistiche. Dico proprio lui, insieme alla sua sensibilità».
Entrambi i Rossi stanno proseguendo la carriera oltre la media: Valentino è vecchio per correre in MotoGP e Vasco è vecchio come rockstar. Come si trovano le motivazioni?
«Secondo me Vasco rimane la voce. E il suo metodo. Quindi in fin dei conti è più semplice per Vasco rimanere ai vertici, basta che rimanga sé stesso e vince. Mica si mette a fare il rapper, non deve confrontarsi necessariamente con gli altri. Per un pilota di moto ai massimi livelli – ricordiamoci che la MotoGP è la F1 delle moto – la sfida è ben più grande e ardua. Nonostante questo Valentino continua a stare sulla cresta dell’onda e rimanere fra i potenziali vincitori. È come se lui si confrontasse direttamente con i rapper delle moto, con le musiche contemporanee, di altre generazioni, dove sia la testa sia il corpo sono in netto vantaggio. Non è la stessa cosa».
Entrambi, per proseguire extra time, hanno migliorato lo stile di vita. Valentino si allena con più caparbietà di un tempo, Vasco è praticamente diventato un salutista. Questo per il fisico. Ma per la testa come si fa?
«Ciò che alimenta e spinge forte i cervelli è il piacere di fare una cosa. Di base, poi ovvio che ci vuole anche la voglia di dimostrare a sé stessi di essere ancora lì, per rimanere motivati. Voglio dire che alla fine io ho smesso di correre quando mi sono sentito inadeguato e meno performante. Secondo me oggi Vale è ancora grande, riesce a essere veloce. E questa è una cosa che comunque carica e rigenera la testa di volta in volta».
Divertimento anche, lui si diverte ancora, si percepisce.
«Certo, oggi lui quando si allena con i suoi piloti si diverte. Rimane appagato ancora tanto dal suo sport e questa è la miglior benzina, in quel senso».
Vasco Rossi Racing
Ma quando Vasco aveva il team era coinvolto e appassionato, si interessava e partecipava o era solo una partecipazione economica?
«Lui è sempre stato uno molto onesto e rispettoso: per dire, alla festa per la conquista del Campionato del mondo lui non venne, dicendomi: “Se vengo io non è più la tua festa, sarei troppo al centro dell’attenzione, mentre i riflettori li meriti tu”. Aveva ragione. Sono sicuro che tanta gente si presentò alla celebrazione del mio titolo con l’idea di incontrare Vasco. Ma non me ne vergogno, anzi, è comprensibile, lui è un beniamino, immensamente più grande di me. Non voleva offuscarmi. Mi è dispiaciuto (ride) ma l’ho compreso benissimo, anzi apprezzato. Comunque lui veniva alle corse quando era libero dagli impegni del Vasco cantante: era l’anno di Rewind, con un tour pieno di date dove anche fisicamente doveva recuperare, prepararsi. Ti posso dire che si era goduto un po’ meno il GP d’Italia, rispetto a quelle due volte nel ’99 quando venne sia in Argentina sia in Brasile. In quei contesti nel paddock si riusciva a muovere bene perché non era assalito dalle masse, si limitava a interagire con gli addetti ai lavori del circus. Tipo al GP del Mugello, quando doveva muoversi per il paddock, doveva per forza avere il servizio bodyguard da concerto, con Roccia, la sua guardia del corpo, sempre attaccato. Diventava difficile vivere la gara, era solo questo il problema. Ma del 1999, proprio al Mugello, ho un aneddoto indimenticabile: vinsi la gara e gli lanciai il casco dal podio. Quella è stata una delle cose più forti per me: io che l’ho sempre acclamato da sotto il palco, per una volta avevo lui sotto al podio ad applaudirmi. Cioè Vasco Rossi sotto il mio palco, non so se rendo l’idea!».
Non è che l’abbiano avuto in tanti… Forse è capitato giusto a Valentino. Ti ricordi cosa ti ha detto alla conquista del titolo? Messaggio, telefonata o live?
«Vasco purtroppo mi contattò che io stavo viaggiando verso l’Australia e mi lasciò un messaggio vocale, non c’era WhatsApp: “È una cosa che odio lasciare i messaggi vocali perché per me sono freddi, mentre con la telefonata c’è il confronto in diretta, la risposta a una domanda, a un complimento caloroso dalla voce (lo stesso che lui emana cantando), e tu potrai ricevere una risposta di compiacimento, di godimento o di eccitazione su quello che io ti dico”. Però in questo caso io viaggiavo, quindi ci siamo sentiti dopo questo vocale ma non è stato il momento caldo. Non c’è stato il live. Però questo è stato il messaggio e lo ricordo, non lo posso far sentire a nessuno però io l’ho sentito, ero atterrato a Melbourne, andavo verso Philipe Island, e questo messaggio di Vasco, da grande imbranato, non l’ho salvato! Un messaggio scritto è stato invece quando feci la pole a Barcellona nel 2000, e mi scrisse che lo facevo godere come una scimmia! Che bello».
Tu sei uno dei pochi che hai conosciuto bene e avuto a che fare con entrambi. Come ti immagini una serata fra loro due, oggi?
«Mi sembra di aver visto sui social, dopo una giornata in Academy di allenamento a Misano, che si siano incontrati a Rimini e hanno postato foto insieme. Ma sono adulti, oggi. Come abbiamo detto prima, curano anche il loro motore e quindi si sanno comportare come deve essere in età matura. Anche se non devono dimostrare nulla o rendere conto a nessuno».
Loca: da pilota a coach
Adesso parliamo un po’ di te. Hai iniziato con l’enduro. A prescindere da quello che ti hanno dato le due discipline, ami di più il tassello o la slick?
«È come il primo amore, come la prima volta. Ognuno di noi ha avuto la prima volta sessualmente, e quindi la prima eccitazione. Ecco, quella che mi ha dato la prima vittoria in fuoristrada è stata la prima e, per questo, unica. Però non posso sminuire la prima volta della velocità, sulla Junior di Monza».
Ma il passaggio dalla terra all’asfalto era stato programmato o è arrivato per caso?
«È arrivato per caso da tante chiacchierate che mio padre faceva con Fabrizio Pirovano. L’officina di Peppo Russo che faceva i motori Yamaha al Piro era confinante con la carrozzeria di mio padre a Lissone. Si sono conosciuti lì e Fabri consigliò subito mio padre di farmi fare la velocità perché il tassello non sarebbe bastato per dare mangiare a chi fa il pilota. Ci era passato lui stesso da quel percorso e si sentiva di spronare anche me a farlo».
E sei andato subito forte appena ti hanno dato in mano la moto?
«Sì, purtroppo sì (sorride)! Perché già nella mia prima gara, a Monza, ero in testa all’ultima curva, la Parabolica che immetteva sul rettilineo d’arrivo, ma andai in terra. Ero troppo carico. Ma era la finale della selettiva Sport Production della zona A, e per stare già davanti all’esordio voleva dire avere una bella manetta, soprattutto a quei tempi. Andavo forte, dovevo imparare a controllare, come è stato per tutta la carriera, la mia euforia».
Un ricordo di Fabrizio Pirovano?
«È stato il mio più grande amico nel giro delle corse; ha sempre creduto in me e mi ha supportato fino al titolo. Mi ha dato tanti consigli, tante cose da evitare e mi ha anche aiutato molto a gestirmi nell’area economica, nell’avere aiuti per preparare la moto e anche a trovare i mezzi per correre».
Quindi possiamo definirlo un fratello maggiore. Oggi i piloti vengono costruiti da bambini come dei robot e vivono pressoché in clausura. Loca giovanissimo come era?«Da bambino ero il pazzo del cortile perché mi facevo continuamente male con la bicicletta, cercavo le pozzanghere e mi infangavo apposta, inciampavo se c’era un fosso da saltare, però non mi sono mai fermato di fronte a un’esperienza nuova, inoltre avevo la tendenza a cacciarmi nei guai; poi, vedendo il papà che “pastrugnava” con le moto, continuavo a rompere per andarci e ne combinavo di tutti i colori, cadendo, rialzandomi. La cosa della moto me l’ha passata nettamente mio padre. È un po’ come nel film lI silenzio degli innocenti: uno fa quello che vede tutti i giorni. È una paragone brutto, ok, quello era un killer, ma io avevo lui come esempio ed è stata come una vocazione che mi ha chiamato».
Ti danno in mano un bambino di sei anni e devi costruirlo fino alla MotoGP. Gare di minicross o direttamente minimoto? A che età lo faresti passare, poi?
«Il bambino all’inizio è meglio che lo viva come un gioco e, potendo, farei scegliere a lui dove si diverte di più. Poi, se un babbo mi dice che vuole far fare la velocità al figlio, tendo a indirizzarlo direttamente sulle carenate, che siano di piccola o media misura. Però consiglio anche attività e allenamenti esercizi in moto da fuoristrada su terreno un po’ più morbido, sdrucciolevole. In questo modo si può anche vedere dove il bambino ha maggior attitudine».
Nel circus del motomondiale, dove sei stato come pilota, cronista, opinionista e ora coach, nei rapporti, paga di più la ruffianeria o la schiettezza?
«La schiettezza! Ma bisogna sapersi controllare, più che altro nelle reazioni a caldo, senza offendere».
Márquez e i suoi guai
A proposito di infortuni, questione Marquez. Come esperto opinionista, percentualmente ripartisci le responsabilità dell’errore a: pilota, team, staff medico.
«La scala di responsabilità, in questo caso, per me è: team, medico, pilota. Quando sei in attività, anche se non stai in piedi, la prima cosa che chiedi al medico delle moto è quando puoi risalire. Non pensi a null’altro. Normale che sia così. Deve essere la squadra a preservare il pilota. Alla Academy, per esempio, l’ordine di priorità è: salute, sport, prestazione. Si rischia di compromettere la carriera ai piloti, eh, mica si scherza».
Secondo te Marc può tornare invincibile come prima?
«Dipende. Fino ad ora non era mai successo, con lui, ma questa volta l’infortunio, grave, potrebbe aver segnato qualcosa nella testa. Prima era abituato a viaggiare sulla lama del pericolo e non si tagliava mai… ora deve ritrovare quella fiducia che è la cosa più complessa da sistemare».
Qual è, da coach, il limite dell’aggressività agonistica con quello della correttezza sportiva?
«Il cardine dello Sky VR 46 Academy è solo uno: il rispetto del tuo avversario a prescindere dal colore della carenatura. Noi ai weekend di gara determiniamo in anticipo il nostro potenziale di risultato indicativo. Non puntiamo a fare numeri da circo per ottenere la prestazione, siamo realisti, razionali. Se i nostri piloti subiscono una scorrettezza cerchiamo di stemperare l’ira e la voglia di vendetta, confidando sulla giustizia sportiva che eventualmente provvederà a sanzionare o richiamare l’autore del gesto antisportivo. Questa è la nostra politica».
Andrea Iannone: ingenuo, vittima, o arrogante?
«Secondo me la cosa più grave è stata la tempistica, a prescindere dalla sua responsabilità o colpevolezza, che non spetta a me che non ho strumenti per giudicare. Ma non si può fare aspettare così tanto tempo per una sentenza… un pilota in attività, così, si brucia e si fanno danni enormi ai team che hanno impegnato un sacco di capitali. Insomma, un po’ come avviene nella giustizia italiana».
Nell’epoca social, come sei configurato?
«Non sono anti-social, ma non essendo molto disinvolto, onde evitare di fare o dire cavolate, riduco l’attività al minimo sindacale di presenza e per uso sostanzialmente professionale. La mia pagina Instagram si chiama @coachloca15 e parla solo della mia attività moto».
Ma dei personaggi, anche piloti o pseudo tali, che costruiscono un’immagine e una professione basata più sull’attività digitale che sul talento, cosa dici? Cioè, capita sempre più spesso che alcuni personaggi emergano e guadagnino di più dei piloti professionisti.
«Fa parte dell’evoluzione umana, io non sono contrario a coloro che riescono a trarre guadagni dalle attività social. Mi fa più paura, piuttosto, l’uso scriteriato e il pericolo che ne consegue, soprattutto per i giovanissimi, che non hanno ancora il carattere e la personalità fatti. Ci vogliono regole e controlli veri e bloccare attività a rischio di danni agli altri. Riguardo ai piloti… se fossi oggi un bravo corridore ma con poca attitudine digitale mi affiderei a qualcuno che lo faccia per me, chi è bravo di suo merita il successo anche in quel senso».
Domanda extra. Tu sei rimasto nel giro delle moto: una pilota australiana, Sharmy Lee Pinfold (Moto3 inglese e Supersport 300), si ritira e accusa il motociclismo di essere maschilista. Cosa pensi tu del motociclismo femminile? Nel motocross hanno una categoria a parte, mentre nella pista corrono insieme.
«Io sono apertissimo, a tutto, nessun tipo di riserva sulle pilote. Sono consapevole che per una ragazza sia difficile affermarsi e sgomitare fra i maschietti indiavolati, ma se hai talento è giusto che ti sia riconosciuto».
Ti rendi conto che hai lavorato e lavori con i due più grandi Sig. Rossi della storia? Cosa ti hanno insegnato Vasco e Valentino?
«Già, mi rendo conto di questa grande fortuna. Allora, Vasco Rossi mi ha trasmesso la sua umanità. L’ho recepita per la prima volta in trasferta in Argentina, a un GP, al ristorante a cena: nel suo mondo non sono nessuno, eppure mi ha parlato del suo modo di fare canzoni: ho scoperto un uomo vero, più che la rockstar. Uno di origini semplici, paesane; il modo aperto in cui si è confrontato con me su temi musicali mi ha colpito molto, perché lo pensavo e vedevo come un divo, e invece mi sembrava di parlare con un normalissimo amico. Da non credere. Valentino, invece, mi ha insegnato quello che non ci si aspetta se non lo si conosce. A essere prima un uomo e poi un pilota. I giovani che entrano nella Academy hanno una grande opportunità perché lui si mette al loro tavolo, sul loro piano, e mette a proprio agio tutti, non è geloso delle sue esperienze e passa loro tutto quello che sa senza gelosie, ha la mente aperta e serena. Chi non lo conosce non sa di questo suo modo di essere».
Loca e la moto, un bilancio. Tu ti sei fatto davvero tanto male con la moto: ti hanno più dato (in soddisfazioni) o tolto (in salute) le moto?
«Senza dubbio un bel ballottaggio sulla bilancia, ma vincono le soddisfazioni».