Fate un esperimento: chiedete a un conoscente di qualunque età, e soprattutto non appassionato di motori e motorsport, se conosce la Dakar. Vi dirà, come minimo, che ne ha sentito parlare. Questo è l’indice di valutazione di popolarità di qualsiasi cosa. Domandare a chi non ne sa. Di classifiche, trionfi, eroi che vincono o che finiscono male è pieno il web. Ma per quelli che partecipano solo per un sogno spendendo un botto, e che per riuscire a concludere (ammesso di farcela) devono scavarsi dentro alla ricerca di risorse e di energie psicofisiche che sembrerebbero impossibili per gli umani… non si parla spesso. Ma come fanno? Che cosa li spinge?
Lo abbiamo chiesto a Massimo Tresoldi e Manuel Lucchese. Meccanico e pilota della Paris-Dakar africana il primo, preparatore e concorrente della nuova versione del rally il secondo. Due epoche della stessa gara a confronto raccontate dalle parole di due uomini appartenenti ad altrettante generazioni.
Massimo Tresoldi: la vera Paris-Dakar
È una visione romantica quella che affiora dalle testimonianze di Massimo, che ha iniziato come meccanico nell’edizione del 1999 per poi tornare altre tre volte, nel 2001, 2002 e 2005, come concorrente privato. «Esattamente vent’anni fa correvo la mia prima Paris-Dakar su una Suzuki DRZ 400. Si svolgeva ancora in Africa e, a mio avviso, era quella vera. Adesso c’è la folla ad accoglierti, mentre allora eri solo con te stesso e capitava di non vedere nessuno per giorni: la sensazione di solitudine e abbandono che si provava in quelle situazioni ora non si vive più» spiega Massimo. «Inoltre il percorso era suddiviso in 18 tappe, contro le 12 attuali.
Io l’ho fatta da privato, il che significava correre la tappa di giorno e poi la sera arrivare, preparasi la tenda, fare manutenzione alla moto, dormire quel poco ore che si poteva e la mattina seguente ripartire. Ma non sono mancate le notti nel deserto, da solo. Ricordo quando, a 80 chilometri dall’arrivo durante l’ultima tappa prima della giornata di riposo, mi sono trovato nel deserto, al buio, stanco e senza vedere niente. Ostinarsi a continuare sarebbe stato un suicidio, per cui ho preso la decisione di fermarmi; mi sono spostato su una duna lontana dal tracciato, ho acceso la lampada di segnalazione per evitare che qualche auto o camion mi investisse e ho dormito di fianco alla moto.
Con le prime luci dell’alba mi sono rimesso in marcia e sono arrivato tranquillamente al bivacco. Strada facendo si vedevano i cadaveri dei mezzi cappottati che si erano rotti insistendo a correre durante la notte: alla Dakar è fondamentale capire quando fermarsi e ragionare, perché un errore di valutazione può voler dire dover buttare via tutto».
Strada facendo si vedevano i cadaveri dei mezzi cappottati che si erano rotti insistendo a correre durante la notte: alla Dakar è fondamentale capire quando fermarsi e ragionare, perché un errore di valutazione può voler dire dover buttare via tutto
E una volta, invece, in cui hai avuto difficoltà tu?
«Era il 2002, pioveva da quattro giorni e avevo di fronte 450 chilometri di fango. Partito alle 6, dopo una giornata infernale e innumerevoli cadute, alle 11 di sera sono rimasto incastrato sotto la moto. In mio soccorso è arrivato l’equipaggio belga di un camion che mi ha tirato fuori e voleva lanciarmi la radio di emergenza. Io prontamente ho detto: no! Non toccare la balise altrimenti vi uccido! Mancava una giornata alla fine, io dovevo assolutamente arrivare a Dakar. Perché, per un privato come me, raggiungere il Lago Rosa significava vincere: non mi interessava la prestazione assoluta, ma arrivare fino in fondo.
Ero stanchissimo, pioveva, mi sono spostato dal tracciato, ho mangiato qualcosa, mi sono sdraiato sotto la moto con il casco e ho dormito un’ora e mezza, perché fisicamente non ce la facevo più. Sono stato svegliato da un motociclista francese che mi credeva morto sotto la moto! Mancavano 80 chilometri all’arrivo, abbiamo proseguito insieme e siamo arrivati al bivacco alle 2,30 di notte. Era una tappa marathon, per cui una volta lì avevi 8 ore di riposo a disposizione, però calcolate sul tempo del primo… un certo Fabrizio Meoni, che era arrivato alle 4 del pomeriggio! Inutile dire che le mie 8 ore me le ero già giocate! I giudici di gara, però, vedendoci provati, ci hanno obbligati a dormirne un paio prima di ripartire, alle 4,30, per l’ultima tappa di 1.050 chilometri. Sono arrivato a mezzanotte e mezza a Dakar… una cosa massacrante! Però di queste esperienze ho dei ricordi bellissimi, mi sono rimaste dentro».
Hai mai rischiato la vita?
«Qualche brutta caduta l’ho fatta. Il primo anno in Marocco, dopo un polverone sollevato dal sorpasso di una macchina, senza vedere niente ho centrato un sasso e sono volato. Poi la sera dalla radiografia mi hanno riscontrato quattro costole incrinate: in quelle condizioni ho corso sei tappe prima che si rompesse la moto. Prendevo antidolorifici la mattina e partivo. Un’altra volta, invece, mi sono svegliato con due piloti di auto che mi stavano gettando dell’acqua in faccia perché probabilmente avevo preso un colpo di sole o ero disidratato, non ricordo nulla. Tra concorrenti ci si aiuta. Anche a me è capitato di imbattermi in un motociclista ferito: ho azionato la radio di emergenza, ho aspettato l’arrivo dell’elicottero e sono ripartito. C’è una grande solidarietà, soprattutto tra privati, che continua durante tutta l’avventura, anche al bivacco. Una volta, avendo finito presto la manutenzione della mia moto, ho sistemato i mezzi di un gruppo di piloti che aveva bisogno di aiuto e mi ha chiesto una mano. Capita a tutti di compiere e riceve gesti di questo tipo».
Hai mai assistito, invece, a qualche comportamento antisportivo?
«Certo, ci sono anche i bastardi. Ero in difficoltà nella sabbia, è arrivato un motociclista che conoscevo che mi ha visto in panne, si è fermato un attimo, mi ha guardato ed è ripartito. Al contrario, una volta, in un bivio che avevano sbagliato in tanti, me compreso, mentre stavo consultando il roadbook perché non mi tornavano le note, si è fermato a chiedere se fosse tutto ok Stéphane Peterhansel in macchina. Questa è la differenza tra il bastardo e il grande pilota, come era Fabrizio Meoni, del resto. Il bivacco, allora, aveva aree separate tra ufficiali e privati. Noi non avevamo le loro comodità: massaggiatore, tenda, moto affidata ai meccanici, però lui al bivacco veniva da noi privati, mangiavamo insieme, discutevamo della tappa del giorno dopo, ci dava consigli… veramente un grande uomo.
La Dakar mi è rimasta dentro perché è una prova con te stesso: quando la corri siete tu, la moto e la natura. Devi saper dosare le forze e, se fisicamente sei preparato grazie all’allenamento svolto nei mesi precedenti, è la mente che deve reggere se vuoi arrivare in fondo, perché ci sono molti momenti scoraggianti in cui ti sembra di non farcela più, dove sei solo in mezzo al deserto, cerchi la strada, non vedi nessuno all’orizzonte. E lì che devi essere forte mentalmente, capire quando devi mollare un attimo, riposarti, prendere fiato, schiarirti le idee. Ti fermi cinque minuti, mangi qualcosa, ragioni su ciò che è successo. Arrivi al punto di parlare con la moto, le dici: non farmi scherzi! Capita anche questo».
Ci sono molti momenti scoraggianti in cui ti sembra di non farcela più, dove sei solo in mezzo al deserto, cerchi la strada, non vedi nessuno all’orizzonte. E lì che devi essere forte mentalmente. Arrivi al punto di parlare con la moto, le dici: non farmi scherzi! Capita anche questo
La Dakar di oggi secondo Manuel Lucchese
«Quando ero ventenne, tutti mi dicevano che la Dakar è troppo dispendiosa, soprattutto per un ragazzo di quella età. Io ho deciso di dimostrare alla gente, specialmente ai giovani, che tutto è possibile con la determinazione, la forza di volontà e il sacrificio». Manuel Lucchese, che oggi di anni ne ha 32, è uno di quei motociclisti che affronta la Dakar nella categoria Malle Moto, ovvero correndo senza assistenza, senza meccanici, senza aiuti. Quelli che partono per una gara, già di per sé molto dura, senza contare sull’ausilio di niente e nessuno, reggendo ritmi intensissimi e privandosi del sonno, per vivere l’esperienza più appagante ed estrema. Tutti gli utensili, i ricambi e le speranze sono contenuti in una cassa delle dimensioni di 35 per 45 per 80 centimetri che, ogni sera, mentre gli altri piloti si riposano dopo una tappa di centinaia di chilometri, loro aprono per mettersi al lavoro sulle proprie moto.
Un’intraprendenza che può sembrare fuori dal comune ma, in fondo, è quella di tante persone che desiderano intensamente una cosa e lavorano per raggiungerla. Perché la Dakar è nell’anima di chi la cerca e inizia quando si comincia a organizzarla, molti mesi prima dello start. Non è un’impresa da poco ma, come dimostra la storia del pilota veronese – che finora ha partecipato a quattro edizioni – non è un progetto impossibile.
Mentre i piloti iscritti alla quarantatreesima edizione del Rally – la seconda in Arabia Saudita, dopo 30 anni in Africa e 11 in Sud America – oggi hanno iniziato a fare sul serio per superare le 12 tappe della Dakar 2021, Manuel è rimasto a casa. Avrebbe dovuto partecipare come copitola del qatariota Ahmed Alkuwari Faha nella categoria SSV T4 su Yamaha YXZ 1000R SS ma, a pochi giorni dalla partenza per Jeddah, è stato fermato dal Covid.
Esperienze su quattro ruote a parte, tu sei un motociclista autodidatta. «Quando avevo sei anni leggevo le riviste di settore di mio padre e gli chiedevo una moto. Inizialmente ha riso, ma poi i miei nonni mi hanno accompagnato a vedere una gara di minicross, e la sera stessa ho imparato ad andare in bici. Pochi mesi dopo c’era una moto che mi aspettava nella mia stanza. È iniziato tutto in questo modo. Da bambino ricordo di aver assistito al prologo della Paris-Dakar a Castellón, in Spagna. Tutti i piloti erano degli eroi ai miei occhi e ho deciso che avrei fatto di tutti per diventare uno di loro».
Miti da sfatare
Quanto conta la mentalità? «Sfatiamo subito un mito: la Dakar non è una corsa per soli ricchi. Ogni anno qualche irriducibile sognatore escogita piani strambi per recuperare il budget per correre: qualcuno ha addirittura venduto casa!» spiega lui che, a 22 anni, ha organizzato un crowdfunding sui social media per trovare i soldi necessari a coprire i costi d’iscrizione, e ce l’ha fatta proprio grazie alla solidarietà di motociclisti di tutto il mondo. «In tanti dicono: “Un giorno la vorrei correre”, ma quanti lo vogliono davvero? Volere è potere; quando ti guardi allo specchio e realizzi che la vita dipende solo da te, dalle tue scelte e dalla tua mentalità, allora sei pronto per prendere decisioni irrazionali senza lasciarti condizionare dall’opinione altrui. Indubbiamente ci vuole un po’ di follia ma, ciò che serve davvero, è la determinazione di affrontare qualsiasi ostacolo senza trovare scuse. La Dakar non è solo una gara: è una scuola di vita che ti porta a scoprire te stesso e conoscere quali sono le tue forze e debolezze interiori, è un’esperienza mistica che ti cambia».
Come ti organizzi con budget, mezzo e un reale piano strategico?
«Il primo step è dichiarare pubblicamente di voler partecipare; sembra una sciocchezza, invece è un atteggiamento vincolante e, se alle parole non dovessero seguire i fatti, farei la figura dell’imbecille. Questo mi esorta a non cedere fino a quando non avrò trovato i soldi».
Come affronti concretamente questo aspetto?
«Analizzando i costi e architettando piani per abbatterli. Ecco qualcosa che non vi ha mai detto nessuno: il primo scoglio sono i 16.500 euro d’iscrizione. Il pagamento è diviso in tre tranche: 4.000 euro al momento della registrazione, che chiude il 15 luglio; 6.000 entro il 15 settembre; 6.500 prima del 31 ottobre. Quindi, guardiamo il bicchiere mezzo pieno, nell’immediato servono 4.000 euro che, con un po’ di risparmi e qualche prestito, sono una cosa fattibile (se, però, non si procede con gli altri pagamenti, l’organizzazione applica una squalifica di cinque anni). Essere iscritti permette di presentarsi alle aziende come concorrente ufficiale della Dakar e non come aspirante: un aspetto che conferisce una marcia in più quando ci si propone ai potenziali sponsor e contribuisce a sentirsi più sicuri mentalmente».
Nella quota d’iscrizione dei piloti sono inclusi il viaggio in nave del mezzo, i bivacchi, i diritti sportivi, l’assicurazione, il GPS e l’Iritrack, la benzina durante le speciali e al bivacco; mentre restano scoperte le spese per il viaggio personale, gli alberghi, il carburante sulle strade di trasferimento, i visti. Secondo Manuel «per risparmiare sul trasporto fino al punto d’imbarco della moto ci si può organizzare dividendo la somma con altri concorrenti o cercare un’azienda di autotrasporti a cui chiedere una sponsorizzazione sotto forma di servizio, individuando quelle che lavorano su quella tratta». A tutto ciò vanno aggiunti circa mille euro per la licenza e altri diecimila per un rally internazionale da correre durante l’ultimo anno: «Questo costo è inevitabile ma necessario solo per la prima partecipazione alla Dakar. Si tratta di un investimento da mettere in preventivo con un anno di anticipo e che richiede sacrificio e risparmio, che tuttavia sarà indispensabile anche per fare esperienza in vista della prova più dura».
E la moto? «Chi ha detto che ne serve una di ultima generazione? Qualche anno fa abbiamo visto piloti correre con vecchie Honda XR400, modelli che sul mercato si possono trovare a poco. Una volta procurata la moto e iniziato ad avere un progetto concreto sarà relativamente facile trovare aziende produttrici di accessori disposte a fornire sponsor tecnici o sconti in cambio di visibilità e foto. Nel 2017 sono riuscito a ridurre il costo complessivo della moto pronto Dakar a soli 7.500 euro (a fronte di una spesa stimata intorno a 16.500 euro) correndo con una Yamaha WR450F del 2012 nuova, trovata come residuo di magazzino in un concessionario, fabbricandomi da solo tutti i supporti e montando accessori di ogni azienda che ho convinto a farmi regalare i pezzi!».
Durante la gara, però, servono parecchi ricambi, pneumatici, mousse… «Per le gomme è un gioco da ragazzi: ogni anno parto senza e, a fine Dakar, torno in Italia con un buon numero di pneumatici da utilizzare a casa sulla moto da enduro. Come? Semplice, i team ufficiali e i piloti più facoltosi cambiano pneumatici e mousse tutti i giorni e spesso i treni che buttano via sono praticamente nuovi, tanto da poter essere utilizzati almeno per un paio di tappe. Quindi, è bene ricordarsi di infilare nel borsone della Dakar alcuni prodotti tipici italiani e presentarsi la sera da qualche meccanico dei team ufficiali… garantisco che sarà felicissimo di regalare gli pneumatici che stava per gettare! Perciò è sufficiente acquistare solo un treno da montare sulla moto prima di partire e risparmiare 2.500 euro.
Doppia, invece, è la cifra prevista per i pezzi di ricambio, costi che si possono rimandare trovando un concessionario amico che sia felice di fornirli in conto vendita. In questo modo, oltre a non dover anticipare ulteriori spese, saranno da pagare solo in caso di utilizzo. Per quanto riguarda il materiale d’usura, chi corre senza assistenza può usufruire gratuitamente dell’olio che sponsorizza la categoria, chiamata, appunto, Original by Motul. Per pastiglie dei freni, filtri dell’aria, filtri dell’olio, catena, corona e pignone… il mio consiglio è andare a una fiera come Eicma, presentarsi in modo umile e cordiale con una bella brochure completa di un piano editoriale per i canali social e non sarà difficile trovare aziende disposte a fornire il materiale necessario».
La lista nozze
Per coprire il costo di abbigliamento e accessori racing, invece? «Anche in questo caso le possibilità sono molteplici: dalla richiesta di supporto tecnico alle aziende, all’organizzazione di una colletta online, tipo una lista nozze. Qualcuno può fare una donazione, qualcun altro magari può regalare qualcosa che non gli serve. L’importante è essere creativi e non badare a eventuali critiche negative ma concentrarsi sull’obiettivo, perché è proprio chi parte senza possibilità e riesce nell’impresa che sarà d’ispirazione per le future generazioni. Se io ho fatto della mia passione un lavoro è solo grazie al crowdfunding che mi ha permesso di partecipare alla mia prima Dakar e dimostrare che nella vita nulla e impossibile se lo si vuole veramente e non si ha paura di osare».
Sembra un aspetto trascurabile, invece non bisogna risparmiare sulle foto in gara (circa 650 euro): «Fornire immagini di qualità con loghi bene in evidenza a chi ha dato il proprio contributo e ha creduto nel progetto è il minimo che si possa fare per dimostrare gratitudine verso i supporter. Oltre ad acquistare le foto scattate durante la gara, conviene investite qualche euro in più per stampare poster o gigantografie da consegnare alle aziende che, molto probabilmente, avranno voglia di ripetere l’esperienza l’anno successivo».
Che cosa ci si porta per la competizione?
«Nel mio caso, correndo in solitaria devo prendermi cura quotidianamente della moto. L’organizzazione concede di portarsi una cassa del volume di 80 litri per trasportare i ricambi, un set di ruote di scorta, un borsone con i propri cambi (ammetto che io porto qualche vestito in meno per fare spazio a ricambi extra!), uno zaino (che di solito riempio di bulloneria varia) e una tenda. Tutte cose che saranno trasportate di tappa in tappa da un camion dell’organizzazione. Tuttavia non sono previsti gazebo o strutture per ripararsi, quindi, che ci siano il sole con quaranta gradi o pioggia e vento, si dovrà lavorare sulla moto senza nessuna protezione. In media, correndo da soli si dorme circa due ore e mezza a notte perché l’integrità del mezzo ha la priorità sul riposo, se si vuole arrivare in fondo».
In che cosa consiste la manutenzione giornaliera della moto?
«Cambio olio motore, cambio filtri olio e aria, spurgo freno posteriore, controllo tensione e lubrificazione catena, verifica pastiglie freni, controllo serraggio bulloneria dell’intera moto, verifica impianto elettrico, cambio gomme (ogni due tappe), verifica livello liquido radiatore, assemblaggio roadbook della tappa successiva. Complessivamente questi interventi richiedono in media tre ore di lavoro alle quali si aggiungono un’ora di briefing, il tempo di mangiare qualcosa, il montaggio della propria tenda e relativo smontaggio la mattina… Le 24 ore di una giornata passano davvero in fretta».
Il kit di sopravvivenza
Quali utensili bisogna portare con sé per sopravvivere alla Dakar?
«Solo tre cose: fascette, nastro americano e fil di ferro. Questi semplicissimi strumenti, uniti a un pizzico d’ingegno, permettono di risolvere la maggior parte degli inconvenienti meccanici. Conviene guardarsi qualche puntata di MacGyver per prendere spunto».
Come alleni la resistenza fisica per reggere due settimane in questo modo?
«Passate un weekend facendo serata il sabato e riposando solo due ore sdraiati su una panchina di cemento, e ripetete la stessa cosa il giorno dopo, presentandovi al lavoro lunedì mattina. Moltiplicatelo per sei e vi farete un’idea di ciò che vi aspetta fisicamente e mentalmente alla Dakar. Più si conduce una vita sregolata con un ritmo circadiano sballato e più sarà facile gestirla, anche mentalmente. Si tratta della gara più massacrante al mondo e, correndo da soli, si dovranno affrontare migliaia di problemi e notti insonni, e gli unici carburanti su cui fare affidamento per superare tutto ciò sono l’adrenalina e la forza motivazionale. Alla Dakar capisci se sei un vero uomo o una fighetta perché, in due settimane, provi tutti i differenti stati d’animo e le emozioni di un’esistenza intera. Chiunque la corra anche solo una volta torna cambiato, con un approccio diverso nei confronti della vita».
Senza il carisma e il fiuto di Thierry Sabine l’allora Paris-Dakar non avrebbe mai conosciuto la popolarità sfolgorante di cui ha goduto fin dagli esordi, oltre quarant’anni fa. D’altronde, la capacità di improvvisare e di far fronte alle situazioni più imprevedibili erano peculiarità innate nel fondatore della corsa. Raccoglieva tutte le informazioni necessarie ma si fidava del suo istinto, riuscendo a cavarsela di fronte alle emergenze.
Alla fine, i consigli pratici di Manuel rispecchiano una visione simile, un approccio analitico e fantasioso insieme, una capacità organizzativa che lui abbina a un atteggiamento positivo anche quando tutto sembra perduto, confidando sul fatto che, alla fine, troverà il modo di risolvere il problema. I piloti della Dakar condividono la passione per il nuovo, la cultura dell’inedito. Ecco perché l’anno scorso, con l’inizio del terzo capitolo della competizione, erano stimolati da un Paese che non conoscevano bene.
La grande macchina organizzativa è in continua evoluzione e porta con sé novità ed eventi collaterali utili per piloti e aspiranti tali. Oggi la strumentazione è all’avanguardia e la sicurezza una priorità. Sono lontani i tempi in cui si era davvero abbandonati a sé stessi, potendo disporre solo di una specie di radio balise da attivare in caso di emergenza. Era la natura della gara. Ciononostante, i cambiamenti introdotti col tempo nel regolamento non hanno scalfito il suo spirito, e lo dimostra il numero sempre alto d’iscritti (fatta eccezione per questa edizione, a causa delle complicazioni finanziarie derivate dalla pandemia) e l’attenzione che suscita ogni anno.
Amata, criticata, confrontata continuamente con un passato perduto in cui i piloti erano davvero folli e spericolati, eroi romantici cui si guarda ancora con ammirazione e nostalgia, a detta di Manuel «la Dakar rimane un’entità strana che ti prende e ti sconvolge. Ogni volta è un’avventura nuova, con le sue difficoltà sempre differenti e la sua imprevedibilità che si spinge oltre ogni pronostico. Ti trascina negli abissi della disperazione nutrendosi delle tue speranze, per poi riportarti in superficie dandoti nuovamente la possibilità di sfidare la sorte, alla stregua di una marea».