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Combustibili alternativi, i gassogeni sul tetto (parte 2 di 4)

Con l'autarchia, l'Italia fascista si lancia alla ricerca di combustibili alternativi e installa gassogeni su veicoli per autotrazione. E per qualche anno si va a legna anziché a benzina. Almeno, nelle migliori intenzioni governative...

A cavallo tra lungimiranza e povertà (e forse con una certa propensione per quest’ultima), tocca all’Italia la palma di pioniere in tema di combustibili alternativi. Correva il 1938 quando l’autarchia – una via obbligata in seguito alle sanzioni economiche comminate dalla Società delle Nazioni per l’invasione in Abissinia – passò per l’installazione di un impianto a gassogeno sui mezzi pubblici. Chi ha sorriso leggendo “L’ultimo comunista” di Maurizio Ferrini al pensiero della 127 giallina del protagonista, corredata di (oggi illegalissime) bombole per il GPL sul tetto, può ben inorridire di fronte al concetto di gassogeno applicato all’autotrazione.

Già, perché il “dispositivo in grado di produrre gas a partire da una massa solida” comportava l’installazione di una vera e propria stufa sul veicolo, solitamente nella zona posteriore. I gassogeni di casa nostra erano a gas povero. Si trattava di bruciatori nei quali al combustibile solido (carbone o legna) veniva fatto mancare ossigeno, in modo tale da favorire la formazione di monossido di carbonio. Il risultato del processo chimico vedeva, come prodotto finito, il gas povero: una miscela di monossido di carbonio, anidride carbonica, azoto e idrogeno.

Poca spesa, poca resa

A conti fatti, un combustibile economico, ma dal potere calorifico molto basso. Se in Italia la caldaia era montata posteriormente (salvo alcune motrici, che prevedevano un apposito vano accessibile dall’esterno e isolato dall’interno del mezzo stesso), in Spagna e negli Stati Uniti andava anche peggio. Il gassogeno era infatti alloggiato in un carrello, con nefasti effetti estetici e, soprattutto, pratici. Non di rado una curva stretta diveniva occasione di ribaltamento del mezzo.

Dal punto di vista meccanico, l’installazione di un gassogeno per combustibili alternativi su un propulsore a benzina era un’operazione invasiva. Bisognava infatti aumentare il rapporto di compressione mediante lavorazione della testata; adottare candele differenti e adeguare il rapporto stechiometrico. Il carburatore veniva sostituito con un miscelatore; su tutta la linea d’impianto, filtri e condensatori eliminavano ceneri e vapore acqueo derivanti dalla combustione.

Consumi elevati

All’atto pratico, il potere calorifico del gas povero – meno di 2000 cal/kg a fronte delle 10.000 e oltre per kg della benzina – si traduceva in una scarsa potenza e in un consumo di combustibile notevole. Sul gassogeno a legna modello Roma montato dall’Alfa Romeo (già, proprio la stessa che vinceva i primi due Mondiali di Formula 1 con Farina e Fangio!), due chili e mezzo di legna equivalevano a un litro di benzina in termini di consumo. Detto dello squilibrio dinamico derivante dall’adozione della caldaia, impossibile dimenticare i rischi di carattere termico e chimico (l’ossido di carbonio è velenoso per inalazione). Insomma, un esperimento con più ombre che luci (e un bel po’ di cenere da smaltire…).

Eppure, di portata storica rilevante: è possibile ricordare il vecchio gassogeno come il nonno un po’ stravagante e maldestro degli attuali GPL e metano, senza dimenticare i biocarburanti che ne costituiscono la discendenza diretta e moderna di combustibili alternativi.

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