Lo conosco, lo chef. E ieri ho incrociato un suo sguardo malinconico in tv mentre riferiva, con voce tutt’altro che serena, la triste ma obbligata decisione di spegnere il sogno che era riuscito a realizzare. Così l’ho voluto sentire di persona, al telefono, per sincerarmi del suo stato d’animo e manifestargli la mia solidarietà. Ne è uscito uno sfogo, che sa anche di intervista, ma dove emerge come non mai il lato umano del La Mantia personaggio dall’immagine vincente: così ho pensato di riportarvela, quella conversazione, perché l’argomento è un tema proprio di questi giorni.
Premessa: con Filippo ho avuto ben poco in comune fino al 2017. Estrazioni, storie e percorsi di vita radicalmente diversi. Il sottoscritto in moto dai tre anni e mezzo di età e mai più sceso, prima per sport e poi per lavoro; lui eclettico multitasking di successo dalle radici siciliane, insieme all’irresistibile accento, ha visto la morte (degli altri) in faccia quattrocento volte, ma anche fatto arti marziali seriamente, per poi buttarsi a capofitto nell’arte culinaria che conta, a Milano, investendo tutto il suo passato per deliziare migliaia di italiani, da vicino o lontano, con le sue stilose prelibatezze: quelle di La Mantia oste e cuoco. Poi le nostre strade si sono incontrate quasi per caso tre anni e mezzo fa, in un’esperienza indimenticabile insieme a Rocco Anaclerio (alias DJ Ringo) e Giovanni Di Pillo. L’avventura indimenticabile, quasi mistica, dei lanci in moto alla Speed Week sul leggendario lago salato di Bonneville. E lo chef cosa c’entrava? Beh, essendo lui amico di tre quarti del suddetto team Faster Sons Yamaha, gli è stato chiesto, in virtù del suo passato di fotografo professionista e della sua nota passione per la moto, di venire a immortalare l’esperienza. Come? Presto detto: si è presentato a metà settimana con una Nikon F2 del 1980 a tracolla e una manciata di pellicole (quelle che scatti e come viene lo scopri dopo, e comunque siano te le tieni e te le fai piacere). Disse: «Non la uso da quel periodo, quando avevo smesso. Quasi non mi ricordo come funziona: vediamo cosa salta fuori, ah ho solo pellicole in bianco e nero, speriamo!». Da quel giorno… idolo.
Ma veniamo ai giorni nostri… La telefonata è partita così
Una brutta botta, chef, stavolta, eh?
«Minchia! Non avrei mai pensato di finire così. Avevo investito tutto quello che avevo guadagnato in 25 anni da cuoco in questo progetto milanese. Ho creduto tantissimo nel mio lavoro».
In diretta su Rai1 quasi avevi gli occhi lucidi a parlare di questa sofferta decisione. Si percepisce che tu abbia preso male proprio moralmente, questa necessità di chiudere battenti alla tua creatura, a prescindere dal lato economico. Quale dei due fattori è nel tuo caso più pesante?
«Quello che stiamo vivendo è al di sopra di ogni immaginazione. La pandemia ci ha resi tutti vulnerabili, quasi inutili. Il disagio psicologico è enorme e i mezzi per andare avanti sono pochi. Dal punto di vista emozionale è stato devastante, ho assistito alla lenta fine di quella che ritenevo casa: un progetto realizzato con il grande Piero Lissoni curato nei minimi dettagli, dall’atmosfera all’arredamento alle cucine. Uno spazio vivibile a 360 gradi in cui tutti potevano fare quello che volevano a qualsiasi ora, una grande casa vissuta dai miei clienti e da me stesso, portata avanti, tra mille difficoltà, con un gruppo di lavoro straordinario».
Ma il primo stop lockdown totale di marzo 2020 non era stato ancora più lungo e pesante? In quel caso si era riusciti a tenere botta?
«A marzo non eravamo consapevoli di cosa stesse succedendo, credevamo si trattasse di qualcosa di passeggero, tanto che abbiamo vissuto le riaperture come un nuovo inizio, una presa di coscienza dopo una brutta parentesi della nostra vita. Giravamo come pazzi tra eventi e cene, con l’ego alle stelle. Poi invece è stata come una lenta agonia: intere classi lavorative eliminate, ragazzi in cassa integrazione e attività costrette a chiudere. Ci abbiamo provato ma è andata così. Nulla da recriminare. Ciò che è successo è molto più grande di noi».
I provvedimenti presi dal governo sono stati totalmente inadeguati, si poteva fare meglio, o meglio di così non si poteva fare?
«Non so cosa avrei fatto io al posto dei governanti, ma l’impreparazione e la supponenza hanno prevaricato su tutto. Idee, soluzioni approssimative, scelte azzardate, visioni non sempre azzeccate. Forse ci stava anche, o forse dal governo ci si aspettano soluzioni, ma non è stato così. Penso che le lobby abbiano agito di conseguenza».
La rivolta dei ristoratori
Un fallimento. Ma delle misure, non dell’attività. In un contesto particolare e storicamente quasi unico come questo, percentualmente, quanta responsabilità ti senti di attribuire alla pandemia e quanta al governo per questo tuo stop obbligato?
«La pandemia ha reso tutto fragile e vano, basti pensare come il comparto medico sia stato un enorme fallimento. Gli ospedali hanno patito di tutto perché non erano mai stati presi in considerazione, così come gli operatori sanitari, con strutture inadeguate e materiale inesistente. Nessuno aveva mai pensato a curare delle strutture che servono a curarci. Se pensi a quanti miliardi sono stati buttati in Alitalia… Ma la cosa che più mi lascia basito è che ancora oggi, con tutti i problemi che abbiamo, ci sono avvisaglie di caduta del governo. Invece di cercare soluzioni e garantire i vaccini, le cure, di pensare a come trovare medici, infermieri e potenziare le terapie intensive, si pensa a come spendere soldi per delle nuove elezioni. Tutto questo mentre centinaia di attività chiudono e falliscono per il covid».
Soffrono più i ristoranti stellati o quelli piccoli?
«Oggi non si fa distinzione tra ristoranti piccoli, stellati, bar e trattorie. Hanno messo tutti sullo stesso piano. Soffriamo indistintamente perché non è stato messo un organo di controllo che verificasse chi si era adeguato alle regole; io e altri colleghi abbiamo speso centinaia di migliaia di euro in sanificazioni, attrezzature, distanziamento, mascherine, gel, guanti, abbiamo ridotto i coperti e acquistato tavoli per l’esterno, ma non è servito a nulla. Quindi, con tutto il rispetto, siamo stati catalogati come locali della movida, alla stregua di chi non aveva fatto nulla o quasi. E alla fine non è servito: avevamo distanziato tutti i tavoli a due metri, eliminato il 45 per cento di posti a sedere con un abbassamento notevole del fatturato… E la cosa buffa è che, nonostante tutto, la TARI, gli affitti e il resto sono rimasti gli stessi. Quindi fatti nostri. Sì, sono arrivati i ristori, ma parallelamente anche la tassa con la stessa cifra di un anno di immondizia. Quindi che si fa? Si scende in piazza? Non sarebbe servito a nulla…».
In tutta franchezza, si potrebbe fare di più e come, in caso?
«Non lo so! La cosa che più mi fa soffrire è che non ho risposte da dare. È andata così, punto e a capo, salute permettendo. Certo, a sessant’anni tutto è diverso, vedi il tempo che passa e capisci che quello che potresti fare, forse, è inutile. Avrei, anzi, avremmo gradito, che si eliminasse tutta una serie di cartelle esattoriali, imposte e altro, per una ripartenza per tutti e alla pari, cittadini e governo».
In questi giorni è scoppiata la rivolta dei ristoratori che, spinti dalla disperazione, scelgono di ribellarsi alla legge e tenere aperti i locali per sopravvivere. Hai una tua posizione a riguardo?
«Ovviamente mi ritrovo accanto a loro, ma non amo trasgredire in questo senso, le regole vanno rispettate. Casomai non si dovrebbe arrivare a tanto. Ho visto video di ristoranti che hanno organizzato balli e canti, e questo non mi piace. Mi ha fatto pensare ai mesi di luglio, settembre e ottobre, quando io e i miei colleghi facevamo di tutto per rispettare le regole, mentre a cento metri dal mio locale gruppi di centinaia di pischelli senza mascherina facevano i pirla bevendo e scambiandosi i bicchieri o le canne. Tutto questo aggravava la nostra situazione».
La fotografia
Tu hai avuto tante vite professionali, intese come fasi, cicli: ce le riporti in sintesi?
«Sono sempre stato un eclettico, un artistoide, un ribelle. Nascere nel 1960 a Palermo è stato un privilegio. Sono stati anni meravigliosi tra moto, mare, amici, ragazze e tante albe a Mondello. Ho fatto il fotoreporter con Letizia Battaglia, mi sono occupato di architettura per molto tempo, sono stato un karateka agonista per vent’anni, ho fatto yoga per nove, ho viaggiato in moto tantissimo, suono da autodidatta e alla fine ho fatto il cuoco. Penso che tutto questo abbia un filo conduttore: non sarei quello che sono senza tutto ciò che ho fatto. È un insieme di cose, di visioni, di incoscienza; sono un impulsivo, un sentimentale, un generoso, un incazzoso, sono io. Non mi sono mai piegato a nulla, né sono sceso a compromessi. O mi si accetta come sono o niente. Non sono mai stato attaccato al denaro, e forse è per questo che oggi non c’è nulla di materiale che mi potrebbe servire. Sono fatto così».
Perché avevi smesso con la fotografia?
«La fotografia è stata uno dei capitoli più interessanti della mia vita. Conoscere Letizia Battaglia è stato illuminante, e la macchina fotografica è stata il mezzo attraverso il quale ho imparato sia a esprimermi, sia a proteggermi dai fatti di cronaca più cruenti. Pensa che ho fotografato quasi 400 morti ammazzati. Scene da stomaci forti, credimi. Avevo solamente 18 anni quando ho iniziato, e ho smesso a 26. Credo di essermi trovato dappertutto, una sorta di Forrest Gump di Palermo… Ho conosciuto gente leggendaria, straordinaria, persone che mi porto ancora dentro e accanto: Josef Koudelka, Ferdinando Scianna, Gino Strada, Edoardo Bennato e tantissimi altri. Ho smesso quando, per errore, sono stato incarcerato per dieci mesi all’Ucciardone di Palermo. Un altro viaggio, altre esperienze».
Credo di essermi trovato dappertutto, una sorta di Forrest Gump di Palermo…
A proposito di fotografia, ne fai ancora per diletto? Usi macchine attuali o preferisci quelle vecchia maniera? Ti piace la tecnologia?
«La fotografia è sempre dentro di me. Ho da sempre una Nikon F2 manuale e porto sempre con me le pellicole Hp5 Ilford. La tecnologia mi piace per alcune cose, per altre sono un tradizionalista».
Il fatto che le macchine fotografiche attuali facciano tutto da sole ha allargato il campo dei fotografi auto-dichiarati. È più difficile, oggi, fare la differenza come talento, capacità e fantasia?
«La tecnologia aiuta tanto, ovvio. Non impostare manualmente il diaframma, la luce, l’esposizione, o solamente non pensare di stampare una foto in camera oscura mi fa star male, ma è così. I telefonini hanno sostituito tutto facendo nascere migliaia di fotografi. Ma guardare una foto stampata a mano e una in automatica è molto differente: se penso che io passavo dieci ore al giorno in camera oscura, tra acidi e buio…».
Guardare una foto stampata a mano e una fatta in automatico è molto differente; se penso che io passavo dieci ore al giorno in camera oscura, tra acidi e buio….
Sappiamo che un’altra tua grande passione sono i motori, le moto… cosa ti regala una moto quando la usi?
«Parlare di moto con te è molto imbarazzante! Devi sapere che tante volte avrei voluto essere quello che, come te, pilota e collauda moto. Ne ho sempre avute. Pensa che la prima Honda 350 l’ho acquistata a 16 anni e da lì non mi sono più fermato: 500, 750, 1150 e 1200. Non sono bravissimo, so guidare. Ho iniziato a 13 con una Vespa 50 Special, carburatore 54 e “gigleur” 90, piombi saldati sul davanti e marmittino. Poi ho avuto il periodo del fuoristrada; nell’80 ho acquistato una BMW Paris Dakar, per poi passare alle custom e arrivare alle Harley. Oggi collaboro con BMW Italia».
Progetti futuri
Torniamo alle cose brutte, ahinoi. Questa mannaia del virus ha intaccato la tua passione per la cucina? A volte capita…
«Per cucinare e scrivere ricette bisogna pensare a colori. Per adesso sono in bianco e nero. La settimana scorsa ho fatto un evento online per una banca e ho dovuto indossare la giacca bianca, mi sentivo totalmente fuori luogo. Però amo cucinare a casa».
Adesso che programmi hai? Periodo sabbatico, chiudi il ciclo ristorazione e apri una nuova fase di vita oppure ci ritenti in altri modi?
«La cosa sicura è che per adesso riaprire un ristorante sarebbe da pazzi, quindi aspetterò. Ma, quando sarà il momento, lo farò per tutta quella gente che mi scrive ogni giorno, solamente per loro e per i miei ragazzi, se saranno ancora disponibili. Il periodo sabbatico mi deve servire per riposizionarmi e capire come vendere tutto l’arredamento del ristorante e della cucina».
Si può mantenere un alto livello di cucina in formato take-away? Ad oggi sembra l’unica forma di ristorazione consentita in quasi tutte le regioni…
«Il delivery è stata un’esperienza straordinaria, abbiamo lavorato tantissimo ed è servito a stare accanto alle persone, nelle loro case. Ho fatto, io stesso, tante consegne in moto ovunque. È servito a me e ai miei ragazzi. Non appena potrò lo riprenderò. Devi essere bravo a organizzare i piatti per l’utilizzo che sarà fatto nelle case, impostando quasi tutto con dei kit di montaggio per rendere protagonisti anche i clienti».
A prescindere dalla tua attività, hai la sensazione che potrebbe non tornare tutto come prima?
«Io dico sempre: quello che è perso non lo riprendi più. Siamo cambiati già adesso, non ci fidiamo più. Il Covid ci ha resi vulnerabili e insicuri. sicuramente ha fatto emergere una cattiveria inaudita».
Ottimista o pessimista di natura?
«Ottimista, sempre».
Hai una figlia piccola: hai paura per il suo futuro? Come la vedi?
«Carolina ha quasi 14 anni, l’età più complessa in assoluto: tra coetanei non possono interagire, non si possono corteggiare, sono distaccati. Fortunatamente la mia ex moglie, con cui ho un rapporto meraviglioso, è una bravissima mamma, loro vivono a Roma e cerco di vederla il più possibile. Ogni tanto colgo tristezza nei suoi occhioni neri. Con Chiara, la mia compagna, abbiamo Bianca, di sei anni, e Andrea, di quasi tre. Bisogna essere abbastanza presenti e mettere da parte le incertezze ed i dubbi».
Domanda intima. Ti manca la Sicilia? Cosa di più?
«In questi ultimi anni mi manca tantissimo. Ci vado ogni estate in vacanza, però la porto sempre con me come stile di vita e professionalmente. Sono onorato di essere siciliano, sempre e comunque».
Altra domanda personale: Red è sostanzialmente un portale motori. Ci dici quali sono l’auto e la moto dei sogni dello chef La Mantia?
«L’auto in assoluto per me è la Jaguar, di cui sono brand ambassador dal 2010, e oramai è casa. Non ti nascondo che in questi anni altri marchi mi hanno contattato, ma non abbandonerei mai il gruppo JLR: finirà quando loro mi diranno basta. Potrei scrivere tomi su queste auto… Per quanto riguarda la moto, invece, a breve proverò la BMW R18 e forse ci resto su!».