Un’intervista che per una volta facciamo partire dalla conclusione: è emerso cioè quello che meno ci si aspetta da un capelli-ossigenati-pelle-borchiato doc che ne ha fatte e viste di tutti i colori, avendo vissuto, come cultore musicale, a stretto contatto con le scene punk inglese e americana nei periodi più estremi.
Lui è il dj nazionale Ringo, direttore artistico di Virgin Radio, al secolo Rocco Anaclerio che fra gli anni Settanta e Ottanta ha colto e attraversato indenne quell’onda d’urto musicale all’insegna del senza ritegno, senza però farsi coinvolgere dalla tendenza all’autodistruzione tipica di quei mondi lontani… ma non troppo. Mentre alla fine lancia un messaggio importante con segnali positivi ai giovani d’oggi, che gli piace l’idea di fare in veste di fratello maggiore, con la speranza di essere ascoltato: nel rock, la droga non è più di moda. O meglio, non ha senso che lo sia ancora.
Ringo, come stai? Vasco ha compiuto 69 anni.
«Ciao, io bene, bene. Rossi? Alla faccia di quelli che pensavano che non ci sarebbe neanche arrivato, qui, con la vita che ha condotto. Ha la pellaccia rock! Ai 69, andare ancora sul palco a suonare, a quel livello, insomma, mica è da tutti. Ha comunque una grande band: il suo chitarrista Stef Burns è uno dei miei preferiti. Gira che ti rigira… può ancora cantare: “Sono ancora qua!”».
Cosa rappresenta nella cultura rock italiana?
«In Italia le fazioni principali sono due, Ligabue e Rossi. Ecco, come messaggio e modo di proporre i testi, spesso con autoironia, a me piace Vasco. Lo percepisco più di altri, si racconta in modo che tutti possano immedesimarsi, questa è una grande dote. C’è anche dell’autobiografia e se vai a vedere i grandi del rock, spesso ritrovi questo modo di esprimersi, come ad esempio Ozzy Osbourne. Riportano anche i danni che hanno fatto, la morte che hanno visto in faccia. Rossi, come le grandi star americane, ne ha passate di ogni genere. Tra gli italiani, altri due che apprezzo molto sono Ivan Graziani e Edoardo Bennato, per il loro modo di scrivere cose anche serie in modo apparentemente scanzonato. Anche con le sonorità loro sono andati molto vicino al mio mondo rock’n’roll americano».
Intramontabile
Perché Vasco non passa di moda?
«Non passa mai chi crea dei capolavori, delle pietre miliari. E lui ne ha fatti tanti. Le sue canzoni sono talmente famose e cantabili che può vivere di rendita sul passato, un po’ come Ozzy, insomma. Magari la gente ora ascolta meno i suoi album nuovi, ma più che altro i suoi fan storici non vedono l’ora di vederlo dal vivo. Ecco, Vasco Rossi è un’esperienza live. Comunque, già uno che abita a Zocca, per dirla alla Vasco, “a me mi fa impazzire”».
Hai avuto a che fare direttamente con lui?
«Sì, ci ho anche collaborato, all’epoca, ho fatto un tour con lui negli anni Novanta, ai miei tempi di Radio 105, con interviste in presa diretta che… se non ci hanno arrestato è stato un miracolo. Diceva delle cose pazzesche. Non le voleva fare prima del concerto, ma alla fine, sudato, in camerino, mangiando formaggio grana e pera, che era il suo binomio di alimento preferito. Era sempre con la sua manager, che ha avuto per un sacco di anni: si fecero gran chiacchierate a ruota libera, che io mandavo in onda a 105. Ti dico solo che uno di quei contenuti fu riportato in prima pagina sul Corriere; venivano sempre fuori cose toste, senza filtri, che facevano clamore. Al punto che io stesso, a fine intervista, rendendomi conto che le sue dichiarazioni a ruota libera avrebbero potuto imbarazzare o creare problemi, gli chiedevo se era sicuro che le potessi divulgare e mandare in onda, e lui mi diceva sempre: “No, no, vai vai, mandala pure!”».
Perché fra gli artisti italiani, all’estero, i pop sbancano, mentre i rock non vengono considerati molto?
«A mio parere la ragione principale sta nella lingua. L’italiano, come gira, come suona, è più melodico, romantico, si presta meglio al pop. Tanto è vero che già negli anni Cinquanta, un grande come Celentano e altri che facevano musica rock, ma con i testi in italiano, all’estero non venivano percepiti. Pensa a quei testi, cantati: con le parole italiane sembravano delle filastrocche più che delle frasi rock. Insomma, all’estero la gente recepisce come genere testi sull’onda di Volare di Modugno e simili, non certo quelli pur belli del mio amico Piero Pelù, o dei Negrita. Ecco, in questi casi di musica oggettivamente di qualità, penso che la lingua sia un limite per far esportare le canzoni. Prendi per esempio altre nazioni europee che hanno dei gruppi rock: gli unici ad aver avuto un successo planetario sono quelli che cantano in inglese. Vedi gli Scorpions, gli Europe o, nel pop, gli Abba, i Roxette. Poi c’è anche da dire che spesso, quando gli italiani cantano in inglese, ahimè, il linguaggio diventa un po’ maccheronico».
Tentazioni
Tu, nel tuo percorso, hai vissuto in pieno l’epoca del rock, del punk più tosto, sia in Inghilterra che in America. Ma non sei mai stato contaminato dai vizi, quelle abitudini da cui ai tempi, bazzicando in quegli ambienti, sembrava impossibile non venire coinvolti.
«Eh, guarda, io ho perso tanti amici, a quei tempi, negli anni Settanta e Ottanta, ma anche qui a Milano, eh, senza andare fino a Londra. Venivo da un quartieraccio, all’epoca la Bicocca non era come adesso. C’erano l’eroina, le rapine, i brutti giri e le tentazioni. Il rischio forte. Ma ho avuto la fortuna di avere un padre che mi ha spronato sin da bambino a fare sport, quindi giocavo, facevo atletica, fatica, mi tenevo in forma. Mi ha fatto capire che dovevo avere rispetto del mio corpo. La droga mi è passata davanti anche quando sono andato a Los Angeles, nell’86: ho visto tanta di quella cocaina che, mamma mia! Eh, niente, a me non è mai interessato, anche perché sono già bello schizzato di mio per natura».
E oggi? Gli stupefacenti dilagano ancora, sotto varie forme e prezzi più accessibili.
«Allora, tasto delicato: mi dispiace per chi ci è caduto e chi continua a caderci. Alla fine, di base, per chi ci scivola c’è un malessere, difficile da approfondire, anche perché non voglio certo fare moralismo e tanto meno giudicare. Ma, a mio parere, drogarsi nel 2021 è veramente assurdo, fuori tempo, inutile. Non che prima…».
Persino il protagonista di questo nostro confronto, il Blasco, si è messo sui binari del salutismo. E lo manifesta, pur senza mai rinnegare il passato.
«Certo. Adesso è nonno Vasco (ride). Ma poi lui se la gestisce anche in maniera intelligente, da furbo, del resto a quasi settant’anni non può certo fare il pirla come quando ne aveva trenta, altrimenti rischia di lasciarci le penne. Quindi fa anche bene a proporre così la sua rinnovata immagine in questa sua fase della vita. Penso sia utile per tutti».
Quindi possiamo lanciare un messaggio anche alle nuove generazioni, che per passare alla leggenda non è necessario autoditruggersi prematuramente?
«Assolutamente sì. Come la storia delle star che muoiono a 27 anni: si è costruito intorno un alone di leggenda, ma sono cazzate. La coincidenza ha voluto che questi artisti siano andati via prestissimo, ma la verità non sta lì. Jimy Hendrix, Jim Morrison, Kurt Cobain… tutti la stessa fine, ma casualmente per l’età. Anche i Beatles negli anni Sessanta e Settanta facevano uso di canapa indiana, si sa: pare che i testi più belli, John Lennon li abbia scritti sotto effetto di allucinogeni, ma quel tempo è passato. La droga è sempre esistita, per carità, ma non è che per seguire una rockstar bisogna emulare il suo stile di vita. Roba da deboli, da perdenti, senza personalità e amor proprio.
Perché poi la vita reale è altra cosa.
«Esatto, anche uscendo dalla musica e dal mondo artistico: la droga rovina davvero il cervello, guarda l’esempio di quell’imprenditore geniale che ha creato un impero grazie al suo talento e poi si è bruciato la testa con la droga e si è messo a violentare ragazze giovanissime. Ora è dentro, Alberto Genovese, vita buttata, per lui e le sue vittime. Che senso ha? Ma poi che schifo finire così! Attenzione, non sto dicendo che se fai rock sei scusato, anche perché tanti dei miei artisti preferiti sono morti per droga, ma così è ancora più penosa la circostanza».
Massimo Riva. Te lo ricordi?
«Eccome. Abbiamo passato un bel po’ di tempo insieme, ho dei bellissimi ricordi con lui, come le grandi notti a Milano in discoteca, al Plastic, all’Hollywood: mi faceva compagnia mentre mettevo i dischi, e parlavamo di rock e di blues. Mi è dispiaciuto tantissimo per la sua fine. Mi piaceva tanto il suo stile, anche musicale, lo avevo apprezzato ai tempi di Alzati la gonna, con la Steve Rogers Band, un gruppo che mi era simpatico».
Cosa ti senti di dire a chi è in questa spirale?
«Io non compatisco nessuno, chi fa uso di droga sa benissimo a cosa va incontro. Ma dico: con tutto quello che ci riporta la storia, come si fa ad andare consapevolmente incontro a percorsi così brutti ancora oggi? Lo stereotipo del rocker che non è figo se non si droga è finita, dai. Basta».
Unire le generazioni
Tu, come Vasco, sei seguito da tutte le generazioni. Puoi ispirarli…
«Spero. Ho fatto anche delle campagne. Sai, ad esempio, che io non bevo alcol: ecco, non hai idea di come, in occasioni anche pubbliche, quando mi versano del vino o mi offrono da bere, le reazioni di sorpresa se rispondo che bevo solo acqua. Percepisco quasi una delusione: ma come, proprio tu, il dj rock per eccellenza? Cioè, non è che se sei nel mondo artistico devi essere per forza ubriaco o alterato la notte come il giorno. Ho anche perso dei colleghi che sono morti per incidenti stradali perché tornavano dalle serate di lavoro stravolti e si schiantavano con l’auto».
Ok, diglielo tu allora ai giovani, che ti ascoltano.
«Non voglio fare il bacchettone o il moralista. Sapete che il 25 febbraio faccio sessant’anni. Ecco, mi piace l’idea di essere per loro un fratellone, o lo zio dai. Io, oltre alla musica che è la mia vita, amo tutto quello che riguarda la moto, i motori, il rock’n’roll, la… biiip, insomma, il sesso, la buona cucina. Mi sono tolto anche io delle soddisfazioni, non sono mai stato uno stinco di santo e ho provato di tutto, tranne prenderlo in quel posto e farmi una pera, che ai tempi si diceva così. Ma vi dico: è troppo bello vivere, per buttarsi. Oggi, combattere nella vita e sopravvivere è la cosa più punk che ci sia».
Lo dici anche a tua figlia Swami?
«Certo. Lei me lo chiede spesso, cosa ho combinato nella vita: si diverte ad ascoltarmi ed è curiosa, io non le nascondo nulla. E alla fine giungiamo sempre alla stessa conclusione: oggi, godersi la vita, anche con poco o tanto che sia, lavorando, gestendo la quotidianità, è da guerrieri più che mai. E lo sai che non è per niente facile».
Giò Di Pillo. Chi è per te?
«Amico. Io penso che nella vita non si abbiano tanti amici, nel senso più specifico del termine. Ci sono migliaia di rapporti, ma quella cosa lì è rara e con pochi: quello che sa tutto ma proprio tutto di te e sei idem tu per lui. Ci siamo confidati cose molto molto personali e intime, lui della sua famiglia e io della mia, i rischi della vita, i problemi di salute, lavoro perso, lavoro guadagnato. L’ho conosciuto prima come telespettatore delle sue telecronache in Superbike: ecco, se già amavo le moto prima, lui mi ha fatto raddoppiare la passione. Quando l’ho conosciuto di persona io ero un suo ammiratore come cronista. Un vero peccato che non abbia ancora un microfono per la Superbike. Uno spreco, non lo dico solo io».
Due e quattro ruote
Il tuo rapporto con i motori.
«Passione per me inesauribile che non si spegne nonostante passino gli anni. Anche qui ne ho fatte di tutti i colori, più che altro con le moto: dalla Bonneville Speed Week 2017 con il team Born to be Faster Sons di Yamaha, al Fast Endurance con Moto Guzzi 2020, che probabilmente farò anche quest’anno. E non sono neppure arrivato ultimo, ho fatto tipo quartultimo. Bastardi, sarebbe dovuto essere un campionato per divertirsi per amatori, e invece andavano come lippe (ride)! Poi faccio un bel programma su Italia Uno che si chiama Drive up, e correrò anche un campionato in auto: la Mid Jet, con la base uguale per tutti ma con la carrozzeria che cambia. Una delle mie principali fonti di energia positiva e di ricarica è proprio la vita dentro il paddock, con gli odori, i colori, i rumori, che sono la linfa vitale del mio vivere, insieme al rock’n’roll. L’altra cosa che mi alimenta da sempre non la dico, perché sono già a posto e sto benissimo. Diciamo che ho dato tanto in passato, e ora mi piace amare nel senso più puro e coerente. Anche questo è rock, no?».
Rocco, tu hai vissuto recentemente un grosso dolore con la scomparsa di tuo fratello Cataldo, per tutti Dino. Si ha una tua immagine pubblica sempre allegra e guascona, e difficilmente si riesce a immaginarti affranto da una cosa così brutta.
«È il mio destino e di quelli che fanno attività esposte al pubblico quello di dover apparire sempre sorridenti, anche quando dentro non lo si è. Tra i tanti messaggi di conforto che ho ricevuto durante le dirette a Revolver nei giorni successivi al lutto mi ha colpito quello di una ragazza che mi ha scritto: “Sei un grandissimo Pierrot”. Ecco, questo penso possa rappresentarmi in quei momenti: la gente da me si aspetta energia, allegria e bella musica. Questo è il mio compito e devo svolgerlo anche quando dentro sono triste. Posso dire che andare in diretta col sorriso certe volte è durissima, ti manca quasi il fiato.
E dove la trovi la forza per reagire?
«Nelle donne. Non fraintendere, intendo negli affetti, nel mio caso la mia famiglia è composta in gran parte al femminile: mia madre, mia sorella, mia figlia, la mia compagna Rachele. Alla fine, per quanto mi riguarda, le donne risolvono tante cose: nei momenti duri, non so perché, sono loro a dare forza. Forse perché più forti lo sono dovute diventare, per natura, procreando, o vuoi perché storicamente hanno dovuto vivere l’uomo come sofferenza, pensa alle donne che hanno perso il marito in guerra».
Dino era il tuo fratellino…
«Un anno in meno e l’ho sempre protetto, parando anche quello che combinava. Ma negli ultimi 15 anni lui lavorava con me ed è diventato per me una persona fondamentale, di fiducia, un angelo custode a cui affidare mansioni anche molto intime e personali. Mi manca come fratello ma anche come riferimento quotidiano per tutto. Figurati che quando mi hanno tolto la patente per un anno mi ha scarrozzato in giro 24 ore su 24».
Lo zio Mimmo e il Caballero
Pensiamo di Dino in modo allegro, dai…
«Ok. Allora, intanto mi faceva sempre ridere perché in famiglia siamo io e l’altro mio fratello alto oltre 1.85, mentre lui era 20 centimetri in meno, e ogni tanto ci diceva: “E che cavolo, mi sa che mamma e papà quella sera che ci hanno dato per me, non aveva tanta voglia”. Poi, nella mia famiglia siamo storicamente tutti milanisti fino all’osso. Lui, no. Era la pecora bianconera, l’unico juventino che faceva impazzire me e mio padre, che non ci capacitavamo. Poi abbiamo scoperto che… lo zio Mimmo, noto Teddy Boy di Milano, con la sua Caballero dotata di frange sulle manopole aveva comprato mio fratello come juventino. Erano gli anni Sessanta, e lui prendeva il gelato per noi nipotini: il Mottarello semplice era aggiudicato di default, ma se dicevi «forza Juve» ti dava quello con le noccioline sopra… e Dino si vendette così, divenendo juventino».