fbpx

Alfa Romeo in Formula 1: la gloria agli albori

Tra il 1950 e il 1951 l’Alfetta vince i primi due titoli piloti della storia, con Nino Farina e Juan Manuel Fangio. Il primo anno il dominio è incontrastato; nel secondo l'avversaria si chiama Ferrari, piegata dopo un entusiasmante testa a testa

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, tra una profonda ferita e l’altra, ritorna la voglia di competizioni motoristiche: è il settembre 1945 quando a Parigi vengono organizzate tre corse nel Bois de Boulogne. La Germania non è ammessa al Trofeo Robert Benoist, che ricorda l’ex pilota Bugatti impiccato nel campo di concentramento di Buchenwald nel ’44 a causa della sua attività partigiana dopo essere finito sulla lista nera della Gestapo: i mezzi sono quelli d’anteguerra, e i piloti – per buona parte – coloro che hanno vissuto l’epopea della Formula Grand Prix e del Campionato Europeo, non disputato a partire dal 1940. I vari Nino Farina, Jean-Pierre Wimille, Louis Chiron, Achille Varzi e Tazio Nuvolari, pur se legati a una Casa di riferimento, si arrangiano con ciò che trovano; eppure, in pentola bolle qualcosa di sostanzioso. Nel 1947 l’Aiacr diventa FIA, Fédération Internationale d’Automobiles, sostituendo l’anno dopo la Formula A, definita nel 1946, con la Formula 1: la più elevata categoria di monoposto a ruote scoperte che possano correre in circuito.   L’idea è pronta, le auto anche, con l’aggiunta della Ferrari: nel 1939, il futuro Commendatore rompe gli indugi e, dopo contrasti insanabili con il direttore tecnico Wilfredo Ricart (sostituto di Vittorio Jano, passato alla Lancia) fonda l’Auto Avio Costruzioni, che poi riprenderà il nome di Scuderia Ferrari. L’attività agonistica riprende con un regolamento che prevede motori aspirati fino a 4,5 litri (e con cilindrata ridotta a 1,5 nel caso di adozione di un compressore): si fa strada l’idea di un Campionato del Mondo, ma più di una pista è rimasta segnata dagli eventi di guerra. L’autodromo di Monza sconta la distruzione del rettilineo d’arrivo, e così il Gran Premio d’Italia prende la via di un circuito cittadino a Milano nel 1947 e di un omologo, ricavato nel Parco del Valentino a Torino, l’anno successivo. Su vari tratti del Nürburgring si sono accaniti i cingoli dei carri armati appartenenti all’Undicesima Armata, e la riapertura completa (una gara di moto si tiene già nel 1947 sulla Südschleife) avviene a fine 1949.  Il 1950 saluta il primo Campionato del Mondo di Formula 1: il titolo in palio è per i soli piloti, le tappe previste sette – sei in Europa e una, quella di Indianapolis, per fare conoscere la serie negli Stati Uniti, invero con pochi risultati. E’ l’Alfa Romeo a partire con il ruolo di favorita: i piloti sono Juan Manuel Fangio, Luigi Fagioli e Nino Farina (ben presto, le “Tre Effe”), affiancati di volta in volta da un pilota locale. La monoposto è l’Alfa 158, l’inossidabile Alfetta: la sigla evidenzia la cilindrata di 1,5 litri e il frazionamento a 8 cilindri; sotto il cofano c’è un compressore Roots che la rende potente (350 CV) e assetata: i consumi sono parecchio inferiori a 1 km per litro. Il progetto, come accennato, è di fine anni Trenta; la resa pratica più che sufficiente per rendere il primo Mondiale un affare tra le Tre Effe, che chiudono con distacchi minimi in classifica e si aggiudicano tutti e sei i Gran Premi cui prendono parte. A proposito di distacchi, il sistema di punteggio è una vera e propria rivoluzione rispetto alla Formula Grand Prix: se in passato vince chi segna meno punti (che possono essere assimilate a penalità), adesso vale l’esatto contrario. Vengono considerati i migliori quattro piazzamenti; al primo vengono assegnati otto punti, al secondo sei; al terzo quattro, al quarto tre e al quinto due. Il giro più veloce in gara vale un punto supplementare; un pilota può cedere l’auto, dividendo l’eventuale punteggio con il cessionario.  La composizione della Scuderia Alfa Romeo – questa la dizione ufficiale – è figlia degli eventi. E, in buona sostanza, si tratta di eventi tragici. Il biellese Carlo Felice Trossi, che ha vinto il Gran Premio d’Italia a Milano con l’Alfetta, è vittima di un cancro che lo stronca a soli 41 anni di età nel 1949; il parigino Jean-Pierre Wimille, vero e proprio asso del volante (nonché agente segreto durante la Seconda Guerra Mondiale, ma questa è un’altra storia) muore durante le prove della Temporada Argentina nel 1949, lo stesso destino toccato ad Achille Varzi (scopritore di Fangio) nel 1948 a Berna. A parte il fido collaudatore Consalvo Sanesi, c’è in pratica una squadra da allestire in tutta fretta: Juan Manuel Fangio non ha grande esperienza in Europa ma è dotato di un talento cristallino; Nino Farina, nipote di Battista (detto Pinin: già, proprio “quel” Pininfarina) ha già 44 anni e la tempra, anche agonistica, del leone maturo; Luigi Fagioli, classe 1898, ha legato le proprie imprese sportive più belle tanto all’Alfa P3 (con la quale diventa campione italiano), quanto alla Mercedes, con cui ha vinto il prestigioso Gran Premio di Monaco. Tre personalità differenti, le loro: spietato calcolatore e fine psicologo Fangio, arrembante sempre e comunque Farina (che non di rado correva con un sigaro tra le labbra) e sornione regolarista Fagioli.  E’ l’italiano a spuntarla, dopo avere vinto il primo Gran Premio della storia a Silverstone: decisiva è la tappa di Monza, ultima in calendario, dove debutta la 159 – evoluzione della 158, con sospensione posteriore realizzata secondo schema De Dion (lo stesso che, nella produzione di serie, arriverà con l’Alfetta del 1972) – destinata a Fangio e allo stesso Farina. La presenza dell’Alfa è nutrita: oltre a Farina, ci sono anche Luigi Fagioli (ancora in corsa per il titolo), Sanesi e Piero Taruffi, che – in virtù del suo sterminato palmarés – è quasi impossibile considerare più valido come progettista, corridore automobilistico o come motociclista. Taruffi cede cavallerescamente la propria auto a Fangio dopo che l’argentino viene tradito dal cambio; la rimonta dell’argentino dura solo 11 giri, prima che sia il motore ad alzare bandiera bianca. Il titolo va al vincitore del Gran Premio d’Italia, Nino Farina, con 30 punti, davanti a Fangio con 27 e a Fagioli, terzo a Monza, con 24 (su 28 effettivi): il marchigiano deve scartare proprio quest’ultimo piazzamento, mettendo sul piatto i quattro secondi posti della stagione. Per l’Alfa Romeo è una stagione trionfale, con la Ferrari che solo sporadicamente si inserisce nel lotto dei migliori.  Il Mondiale di Formula 1 è agli albori, dal momento che nel solo 1950 sono disputate qualcosa come 16 gare extra-campionato (per tacere della Formula Libre sudamericana, affine alla massima formula, che prevede 11 prove): per l’anno successivo, le gare sono otto (sette in Europa, oltre a Indianapolis). Le favorite d’obbligo sono le Alfa Romeo: sulla 159 ci sono i riconfermati Fangio, Farina e Fagioli, con sporadiche presenze – tra gli altri – di Sanesi (che disputa quattro prove), Felice Bonetto (quattro anche per lui) e Paul Pietsch, che guida al Nürburgring. Quest’ultimo, pilota di lungo corso (nonché longevo come pochi, visto che morirà ultracentenario nel 2012), oltre che futuro fondatore dell’autorevole Auto Motor und Sport, è il marito di Ilse Hubach: un sottile filo lo lega ad Achille Varzi, perché la moglie – negli anni Trenta – è l’amante dell’asso di Galliate nonché colei che lo introduce all’uso della morfina, cosa che ne condizionerà inesorabilmente la carriera. Uno dei primi scandali rosa alla luce del sole, che costringe Varzi a un lungo periodo di disintossicazione, iniziato dopo avere interrotto il rapporto con l’amante (si vocifera, non senza pressioni dall’alto, visto che un Campionissimo drogato, per l’Italia fascista, non è che fosse un gran biglietto da visita).  Quella dell’Alfa Romeo è una vittoria col fiatone, pur se legittima e meritata: Fangio vince d’autorità nell’inaugurale Gran Premio di Svizzera; messa nell’archivio la 500 miglia di Indianapolis, cui partecipano solo corridori statunitensi (e in calendario il 30 maggio, solo tre giorni dopo la gara di Berna, quindi logisticamente impossibile o quasi), tocca a Farina vincere in Belgio, complice anche un problema in fase di rifornimento alla 159 di Fangio che relega l’argentino fuori dai punti (ne ottiene invero uno, a causa del giro più veloce). Il Gran Premio di Francia vede il ritiro di Fangio e del figlio di Antonio Ascari, Alberto, divenuto nel frattempo pilota di punta di una Ferrari sempre più minacciosa dopo avere puntato sul motore aspirato a 12 cilindri da 4,5 litri; i due, tuttavia, si vedono cedere le monoposto rispettivamente da Luigi Fagioli e da Froilán González durante i rifornimenti. Così, la vittoria di Fangio vale quattro punti e il secondo posto di Ascari tre (e lo stesso punteggio viene assegnato ai compagni di squadra), gli stessi che mette nel carniere l’altro pilota Ferrari, il milanese Gigi Villoresi. La prima rivoluzione copernicana della (giovanissima) storia della Formula 1 avviene il 14 luglio, a Silverstone: è El Cabezon González, argentino come Fangio ma dallo stile di guida diametralmente opposto – tutto cuore e irruenza (e testone, a giudicare dal meritato soprannome), a portare la Ferrari alla vittoria, spezzando l’egemonia dell’Alfa Romeo. Fangio è buon secondo, e in testa al Mondiale con un buon margine su Farina (21 punti contro 15): il primo dei ferraristi è Villoresi, a quota 12.  E’ al Nürburgring che inizia a girare il vento in direzione di Maranello: vince Ascari, con cinque Ferrari nelle prime sei posizioni; Fangio è secondo, con un punto supplementare per il giro più veloce siglato, ma deve iniziare a scartare. I suoi 28 punti sono in realtà 27 validi; quelli di Ascari, che si è ritirato già due volte in gara, 17. In prospettiva, il duello è più serrato di quanto i numeri vogliano dare a vedere, tanto più che il Gran Premio d’Italia è ancora appannaggio di Ascari, con González secondo e Farina (che rileva l’auto di Felice Bonetto) terzo. Fangio è fuori dai giochi, con il motore rotto. Decisivo è il Gran Premio di Spagna, sul circuito cittadino di Pedralbes (nei pressi di Barcellona): chi vince tra Fangio e Ascari è iridato. Alla potenza dell’Alfetta, che sul piano mette 450 CV e una sete smisurata (con tanto di serbatoio da 300 litri per il carburante) si contrappone l’agilità della Ferrari 375, che di cavalli ne ha 70 in meno. Trionfa Juan Manuel Fangio, per una variabile quasi incalcolabile: a Maranello si decide di montare pneumatici più stretti del consueto per favorire la scorrevolezza e la velocità di punta, con il risultato di penalizzare Ascari in termini di stabilità e durata. L’Alfetta 159 conclude la propria carriera: a fine anno, l’Alfa Romeo decide il ritiro dalle competizioni per meglio concentrarsi sulla produzione di serie (è alle porte l’ambiziosa Giulietta, che diventerà “la fidanzata degli italiani”, segnando il passaggio dell’Alfa a vera realtà industriale). Per evitare che la Formula 1 diventi una Formula Ferrari – vista l’inferiorità tecnica degli altri contendenti – per il 1952 viene deciso che correranno vetture da 2 litri aspirate (o da 0,5 litri con compressore). Una nuova rivoluzione è cominciata, con l’Alfa Romeo che si congeda da regina dell’ancien régime.  

 

Articoli correlati
Prova Mini Aceman - La giusta via di mezzo?
Prova Kia EV3 - Il SUV elettrico compatto che pensa in grande
Prova Mobilize Duo 80 Evo – Attacco al traffico