Anno 2015. CO2, mobilità sostenibile, coscienza green, motori elettrici, metano, GPL, ibrido plug-in, idrogeno ed economia d’esercizio. Parole d’ordine dell’automobilismo moderno. Sintomo di maturità. Di un settore, quello automotive, che da imputato (a torto) principale dell’inquinamento del pianeta va tramutandosi in laboratorio di sperimentazione per tecnologie eco compatibili. Bellissimo. Giusto. Futuristico. Però, però… I patentati del “vecchio” millennio amavano guidare. La passione ardeva vivida, senza complessi. Scevra dalle accuse di anacronismo che, più o meno velatamente, sono oggi all’ordine del giorno.
Pur stringendo tra le mani il volante di un toporagno a quattro ruote, vi era nella testa e nel cuore il Col de Turini, il Rally di Sanremo, gli scarichi Supersprint, i cerchi OZ Racing, le cinture Sparco e i pomelli Momo. Il soft tuning era la normalità. Parlare di cv, Nm, assetti, impianti frenanti, kit d’aspirazione e terminali? Pane quotidiano. La connettività? Già esisteva. Bastava andare al bar. Il navigatore satellitare? Esisteva anch’esso. Aveva due occhi, un naso, una bocca, due orecchie e una cartina stradale tra le mani. E magari anche una minigonna. Il freno di stazionamento elettronico? No, ecco, quello non esisteva. Grazie a Dio c’era il freno a mano. Protagonista era la vettura. Non gli accessori. Non il contorno. L’auto in sé era al centro dell’attenzione: cuore (motore), corpo (telaio), arti (sospensioni) e articolazioni (freni). L’essenziale. Parlare di passione aveva ancora senso.
Degli Anni ’90 è restato poco o nulla
Il panorama delle 4×4 turbo vive un momento difficile