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Letargo spaziale: ibernare gli astronauti per i viaggi marziani?

Per risparmiare sui costi delle missioni, ridurre le dimensioni dei veicoli spaziali e mantenere in salute l'equipaggio durante la strada per raggiungere Marte, l’Agenzia Spaziale Europea sta pensando all’ibernazione umana come tecnica per rivoluzionare i viaggi nello spazio

Nel fare i bagagli per un viaggio con destinazione Marte, bisogna tenere presente diversi aspetti. Primo fra tutti, il fatto che durerà circa due anni. Due anni in cui gli astronauti avranno bisogno di una grande quantità di cibo e acqua, dovranno condividere uno spazio ristretto, attraverseranno lunghissimi periodi di noia. Il che, tutto sommato, potrebbe facilmente sfociare in tensione, ansia e depressione. 

Sebbene i prossimi viaggi spaziali riguarderanno il ritorno sulla Luna con le missioni Artemis, agenzie governative e società private stanno studiando da tempo i problemi legati a come raggiungere il Pianeta rosso e affrontarne la permanenza. E per riuscirci serviranno tecnologie non ancora sviluppate. 

Se per toccare la superficie lunare – lontana dalla Terra mediamente 384.400 chilometri – basta qualche giorno di viaggio, la questione si fa molto più complicata se i chilometri da percorrere sono 50 milioni (considerando la distanza minima) per arrivare su Marte.
Ecco perché l’Agenzia Spaziale Europea ESA sta pensando a ibernare gli astronauti durante i viaggi di andata e ritorno per il suolo marziano.

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L’astronauta dell’ESA Paolo Nespoli nel suo sacco a pelo nel modulo Nodo 2 di costruzione italiana. Conosciuto anche come Harmony, il Nodo 2 è stato consegnato alla Stazione Spaziale Internazionale durante la Missione Esperia del 2007 di Nespoli, a bordo del volo STS-120 con lo Space Shuttle Discovery. (Ph. NASA).

Animazione sospesa

«Dove c’è vita, c’è stress» afferma Jennifer Ngo-Anh, coordinatrice della ricerca e carico utile dell’ESA per l’esplorazione umana e robotica, e una degli autori del paper European Space Agency’s hibernation (torpor) strategy for deep space missions: linking biology to engineering che collega la biologia all’ingegneria. «Il meccanismo ridurrebbe al minimo la noia, la solitudine e i livelli di aggressività legati alla reclusione in un’astronave» aggiunge.
La strategia messa in campo prevede sia di studiare la parte biologica, sia di capire come l’ingegneria potrà aiutare nella realizzazione di questo procedimento. 

Secondo lo studio, si stima che ogni individuo avrebbe bisogno di circa trenta chili tra cibo e acqua per due anni per sopravvivere al viaggio marziano. Non solo: allontanandosi dalla Terra e dal suo campo magnetico, sarà necessario prendere in considerazione anche le radiazioni, fatali per il corpo umano, a cui gli astronauti sarebbero esposti. 

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L’astronauta dell’ESA Samantha Cristoforetti all’interno di un sacco a pelo nel suo alloggio personale sulla Stazione Spaziale Internazionale nel 2014, durante la missione Futura. Gli astronauti legano il sacco al muro per evitare di fluttuare liberamente e di sbattere contro l’attrezzatura durante il sonno. (Ph. NASA).

Dunque, quella dell’ibernazione umana sarebbe una tecnica che risolverebbe più aspetti critici. Ridurrebbe il metabolismo basale fino al 25 per cento (in una persona di 75 chili), permettendo così di diminuirne anche il sostentamento. Inoltre, in una simile condizione di animazione sospesa, gli individui non sentirebbero il peso della noia e della solitudine, riducendo anche l’aggressività che scaturirebbe da un tale contesto di stress prolungato. 

Come gli orsi

Proprio come accade in natura per alcune specie, il torpore durante il letargo è uno stato indotto che preserva l’energia e, applicato a un equipaggio in rotta verso Marte, ridurrebbe drasticamente la quantità di rifornimenti e le dimensioni dell’habitat, rendendo più fattibile l’esplorazione di lunga durata.
Tardigradi, rane e rettili, infatti, vanno in letargo per sopravvivere a periodi di freddo e scarsità di cibo o acqua, riducendo la frequenza cardiaca, la respirazione e altre funzioni vitali a una frazione della loro vita normale, mentre la loro temperatura corporea si abbassa vicino a quella dell’ambiente.

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Un orso durante il letargo. (Ph. MJ Boswell).

Il miglior modello per l’ibernazione umana nello spazio, tuttavia, sembra essere l’orso: presenta una massa corporea simile alla nostra e riduce la sua temperatura solo di pochi gradi, un limite considerato sicuro per l’uomo. E, proprio come gli orsi, gli astronauti dovrebbero accumulare del grasso in eccesso prima di addormentarsi, come una sorta di riserva energetica.
Durante il letargo, gli orsi bruni si ritirano nelle loro tane e sperimentano sei mesi di digiuno e immobilizzazione. Se una persona trascorre un simile periodo di tempo a letto, va incontro a una grave perdita di muscoli, forza ossea e a un maggiore rischio di insufficienza cardiaca.

«Tuttavia, la ricerca dimostra che gli orsi escono dalla tana in salute in primavera, subendo solo una perdita marginale di massa muscolare, e bastano loro circa venti giorni per tornare alla normalità. Questo ci insegna che l’ibernazione previene l’atrofia da disuso di muscoli e ossa, e protegge dai danni ai tessuti» spiega Alexander Choukér, professore di medicina presso l’Università Ludwig Maximilians di Monaco, in Germania.

Livelli più bassi di testosterone sembrano favorire il lungo letargo nei mammiferi, gli estrogeni negli esseri umani regolano fortemente il metabolismo energetico. «L’equilibrio molto specifico e diverso degli ormoni nelle femmine o nei maschi e il loro ruolo nella regolazione del metabolismo suggeriscono che le donne potrebbero essere le candidate preferite» aggiunge Choukér.

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Un grafico dell’ESA che illustra l’ibernazione degli astronauti.

Dolce letargo

Gli scienziati suggeriscono agli ingegneri di costruire baccelli a guscio morbido con impostazioni ottimizzate per un dolce letargo: un ambiente tranquillo con luci soffuse, bassa temperatura – meno di dieci gradi centigradi – e umidità elevata.
Gli astronauti si muoverebbero molto poco, ma non sarebbero trattenuti e indosserebbero indumenti che evitino il surriscaldamento. In più, i sensori indossabili misurerebbero postura, temperatura e frequenza cardiaca.

Ogni capsula sarebbe, inoltre, circondata da contenitori d’acqua che fungerebbero da scudo contro le radiazioni. «L’ibernazione aiuterà effettivamente a proteggere le persone dagli effetti dannosi delle radiazioni durante i viaggi nello spazio profondo. Lontano dal campo magnetico terrestre, i danni causati dalle particelle ad alta energia possono provocare morte cellulare, malattie da radiazioni o cancro» afferma Choukér.

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Un tempo appannaggio della fantascienza attraverso film come “Alien” (nella foto) e “2001: Odissea nello spazio”, l’ibernazione o “animazione sospesa” potrebbe un giorno diventare un importante fattore abilitante per i viaggi nello spazio profondo. (Ph. 20th Century Fox).

Con l’equipaggio a riposo per lunghi periodi, l’intelligenza artificiale entrerebbe in gioco durante le anomalie e le emergenze, senza bisogno di alcun intervento umano: «Oltre a monitorare il consumo di energia e le operazioni autonome, i computer a bordo manterrebbero le prestazioni ottimali del veicolo spaziale fino a quando l’equipaggio non verrebbe risvegliato» conclude Alexander.

Chiaramente, siamo ancora molto lontani da mettere in pratica un tale processo, tuttavia questi studi aprono la strada per sperimentazioni e analisi future, e per una fase di progettazione ingegneristica dei supporti vitali.

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